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Do the Right Thing

NBA - Americanismi e Streetculture

Do the Right Thing NBA - Americanismi e Streetculture

“Se pensate che il basket sia solo basket, allora non avete capito niente di basket”, queste le parole che Federico Buffa cita di Phil Jackson che, per i meno esperti, è semplicemente IL Coach, avendo vinto 11 campionati NBA ed avendo allenato tra gli altri Michael Jordan, Shaq e Kobe Bryant

Una frase di un tale santone non può essere banale: il basket non può essere solo un gioco e la sua più perfetta declinazione (l’NBA) tantomeno. Dietro ad uno dei tre sport più diffusi d’America c’è tanto altro. Ci sono le prime palestre aperte solo ai bianchi, ci sono i leggendari play-ground newyorkesi, c’è integrazione razziale, c’è l’elezione dei neri al comando, quando di Obama non si avevano ancora tracce. Ci sono le treccine, gli atteggiamenti da gangstar, la Nike, i contratti milionari, i bei vestiti… insomma welcome to the NBA: ” Where Amazing Happens”

L’universo NBA è un mondo particolare, popolato da atleti straordinari, ma dominato da afro-americani. Sono loro dagli anni 60/70 in poi, dall’era Chamberlain 

– Russell a regnare incontrastati, a proclamare con forza e rabbia che per questo gioco ci sono effettivamente portati. La maggior parte di questi atleti viene dalla strada, pochi o nessuno hanno entrambi i genitori, tanti vivono al limite, rispettando solo lo street-code e poco altro. Ma sul campo si fanno sempre più forti e salvo sporadiche eccezioni (Bird, Stockton, Pete “Pistol” Maravich) non ci sono tracce bianche tra i primi 10 della lega, e fidatevi che ci siamo anche tenuti stretti. Gli afroamericani cominciano a diventare degli idoli, ad essere osannati ed imitati.

Il dilagarsi della cultura hip/hop non fa altro che accentuare un “way of being” che finalmente fuoriesce dal ghetto per espandersi a macchia d’olio su tutta la nazione. Arrivano poi gli anni ’90 una vera e propria calamita naturale si avventa sulla NBA: il suo nome è Michael Jeffrey Jordan.

Con Jordan cambia tutto, e il cambiamento è tanto più evidente quanto più ci si allontana dal parquet. Non si discute sul fatto che sia stato il migliore, parlando di titoli vinti e canestri segnati, ma MJ porta l’NBA fuori dai palazzetti, diventa la copertina di questo meraviglioso sport che, aiutato dalle multinazionali, veste il mondo. Nasce l’AIR JORDAN, forse la più famosa sneaker della storia, desiderata da ogni singolo ragazzino americano, dal Texas al Minnesota e se non credete a me, guardate la clip video di “Wings” di Macklemore e capirete. Le jersey col numero 23 sono oramai un must-have, e come succede nell’hip-hop, adesso sono i bianchi che vogliono vestirsi come i neri, l’epoca di Malcolm X è andata, perché essere nero è diventato cool, l’NBA è diventata cool, è diventata un brand. 

Tutti cominciano a indossare i primi snapback con i loghi delle trenta franchigie, con i Lakers ed i Knicks (guarda caso NY e LA) a farla da padroni. Forse semplicistico far partire tutto da Michael, già prima di lui i giocatori sapevano come farsi conoscere al di fuori dei palazzetti (Chamberlain si dicesse cambiasse una bianca a sera, e forse anche piu di una), ma concedeteci di attribuire la paternità dell’NBA Fashion a sua Maestà Jordan. 

Cominciamo da qui, ma di storie ce ne sono tante, abbiamo personaggi da raccontare, vere e proprie mode da comprendere, vite da analizzare: si passa dalle Air ad Allen I, da Spike Lee a Jack Nicholson, da Brooklyn a Golden State, alla riscoperta di uno sport che è anche un business pazzesco e che poteva fiorire in un solo paese al mondo: gli Stati Uniti d’America.