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Anelka è stato un incompreso o un precursore?

Il documentario Netflix mostra come la storia dell'attaccante francese sia più attuale di quel che si pensa

Anelka è stato un incompreso o un precursore? Il documentario Netflix mostra come la storia dell'attaccante francese sia più attuale di quel che si pensa

Il defining moment di "Anelka: Misunderstood" arriva più o meno a metà del documentario. C’è Anelka che fruga alla ricerca di qualcosa in un ripostiglio pieno di sneakers della sua casa a Dubai: a un certo punto, in quello che sembra un cliffhanger narrativo costruito ad arte, sbuca la copia (impolveratissima) della Champions League vinta nel 2000 – anno in cui diventerà campione d’Europa anche con la Francia – con il Real Madrid. Anelka la guarda e poi accenna a un sorriso: “Eccola qui, stagione 2000/2001”, dice in favore di camera, appena qualche istante prima che l’amico che è con lui gli faccia notare che in realtà quel trofeo è della stagione precedente.

Che Anelka non ricordi bene uno dei momenti più significativi della sua carriera – cui, tra l’altro, aveva contribuito segnando due gol nelle due semifinali contro il Bayern Monaco – racconta di come lo si possa considerare il primo calciatore "consapevole" dell’era moderna, soprattutto per ciò che riguarda la differenza tra ciò che accade in campo e quelli che accade al di fuori. In quest'articolo su The Ringer, Micah Peters ha scritto che "Anelka ha cambiato l'idea che i tifosi avevano del calciatore medio in campo, nel tunnel e negli spogliatoi, in una rappresentazione perfetta di ciò che un atleta è in realtà". Quindi un uomo, prima ancora che un calciatore, che deve stare attento a non essere solo la proiezione di ciò che fa o non fa sul campo, evitando di diventare la vittima di un gioco che imponeva la standardizzazione non solo del rendimento ma anche della personalità. E che è la causa del cortocircuito alla base di quel "Genio e Sregolatezza" presente nel titolo della versione italiana e che c'entra poco con quello che si vede. Il fatto che per Anelka, a un certo punto, abbia contato più la coerenza di fondo nell'essere se stesso che la parabola di carriera, incarnando il bello e il brutto dell'emotività di uno sportivo professionista nell'epoca precedente ai social network, ha alimentato quella narrazione distorta da bad boy che lo ha accompagnato durante tutta la carriera. 

In realtà, nonostante le promesse e le premesse degli inizi non siano state mantenute del tutto, non si può dire che quello di Anelka corrisponda al profilo dell'incompiuto, dell'indolente di successo che ha buttato via il suo talento, dell'elemento destabilizzante di un gruppo. Anzi: il suo palmarès tra club e Nazionale e invidiabile, è nella top 20 dei migliori marcatori della storia della Francia - 14 gol in 69 presenze -, ha segnato quasi 230 reti in nove campionati diversi. Tuttavia l'essere stato un personaggio globale e globalizzato anche fuori dal campo ha finito con l'alterare le prospettive e le percezioni sul giocatore: Anelka ha inaugurato l'era del “calcio in cui comandano i calciatori” vincendo il braccio di ferro con il PSG per trasferirsi all'Arsenal quando non era ancora maggiorenne; è stato il primo a rappresentare in chiave moderna il legame tra calcio e cultura popolare - talvolta in maniera discutibile, come quando nel 2013 riprese dal comico Dieudonné il gesto della quenelle rimediando cinque giornate di squalifica dalla Football Association. Ha sdoganato quell'idea di conflittualità individuale (con compagni di squadra e allenatori) con cui abbiamo imparato a fare i conti ma che, fino a poco tempo fa, era un qualcosa che si poteva solo presumere dagli spifferi e dalle voci sussurrate dallo spogliatoio. 

Un quadro d'insieme che oggi ci è familiare e che fa parte della quotidianità immortalata sui social dagli stessi protagonisti ma che, al tempo, era un qualcosa di nuovo, diverso, "incompreso" appunto. E che ha reso incomprensibile un giocatore che era semplicemente avanti rispetto ai suoi tempi, nel modo di vestire, di atteggiarsi, di comunicare, di pensare fuori dagli schemi prima che diventasse a sua volta uno schema. 

Pensiamo a un grande protagonista del calcio di oggi come Karim Benzema, che con Anelka ha in comune la burrascosa chiusura della parentesi Nazionale a causa dei conflitti con il CT e l'aver costruito parte dello star power che lo circonda sull'ostentazione di certi dettagli e dei tratti più marcati della sua personalità. Oggi il #9 del Real Madrid sembrerebbe solo una figura aliena rispetto all'ideale di calciatore pop con il look da boyband e dalle dichiarazioni scontate e prevedibili, se non ci fosse stato Anelka a mostrare quei nuovi canoni estetici, comunicativi e culturali che sembravano appartenere solo a lui e che, invece, sono ora diventati di tutti. E che in "Misunderstood" trovano spazio anche ora che di anni ne ha 41 e allena le giovanili del Lille: c'è la routine quotidiana fatta di corse solitarie nel deserto e di figli accompagnati a scuola o all'allenamento; c'è la passione per le sneakers, lo streetwear e la musica rap - principali punti di contatto tra gli sportivi di oggi e un pubblico di riferimento sempre più giovane; c'è lo spazio dedicato alla celebrazione dell'etica del lavoro e alla riflessione su come "non basta dire di voler essere un calciatore perché esserlo sul serio è dura"; e c'è il legame con le proprie origini, l'importanza di non dimenticare da dove si viene per restare sempre se stessi anche quando si è arrivati dove si voleva arrivare. 

Praticamente tutto ciò che si ritrova in un normale feed Instagram del calciatore-tipo del 2020 che racconta e si racconta senza filtri. Proprio come Anelka. Solo che lui lo ha fatto quando Instagram non c'era. E quando significava non essere compresi fino in fondo.