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Vogliamo davvero accontentarci del razzismo?

Mario Balotelli e l'importanza della narrazione sul razzismo nel calcio

Vogliamo davvero accontentarci del razzismo? Mario Balotelli e l'importanza della narrazione sul razzismo nel calcio

L’11 marzo 2019, durante Utah Jazz - Oklahoma City Thunder, Russell Westbrook - nel tentativo di recuperare un pallone - finisce addosso agli spettatori presenti in prima fila alla Vivid Smart Home Arena. Un tifoso dei Jazz, tale Shane Keisel, infastidito dall’accaduto gli grida all’orecchio «Get down on your knees like you’re used to» («torna in ginocchio come sei abituato a fare». Keisel è bianco, e Westbrook interpreta l’insulto come razzista e reagisce, colpendolo. Nei giorni successivi l’NBA e gli Utah Jazz supportano la tesi di Westbrook, bannando a vita il tifoso dalle partite casalinghe della squadra ed esprimendosi pubblicamente contro ogni forma di razzismo. E’ molto difficile riuscire a tracciare un parallelo tra gli Stati Uniti e l’Italia, soprattutto quando si fa riferimento alla questione razziale e al modo in cui si è abituati ad affrontarla - e non è certamente vero che gli USA hanno imparato a gestire l’argomento al meglio - eppure la prima parte della stagione corrente di Serie A ha insegnato che l’Italia e le istituzioni sportive sono ancora incredibilmente indietro quando si parla di razzismo. 

Domenica pomeriggio, nel corso della trasferta in casa dell’Hellas Verona, Mario Balotelli è stato vittima di cori razzisti, nello specifico dei sempre più presenti versi da scimmia che vengono indirizzati ai calciatori neri. Balotelli ha raccolto il pallone, lo ha calciato verso le curva del Verona e ha minacciato di abbandonare la partita, prima di essere convinto da compagni e avversari a restare in campo. Una reazione per certi versi simile a quella di Westbrook, più fisica di quelle di Kessie o Koulibaly che nelle prime giornate della Serie A pure si erano trovati in situazioni simili.
La reazione dei media e tifosi è stata però diversa da quella che ci potrebbe aspettare: Balotelli è stato accusato di aver reagito in maniera eccessiva, di essersi lasciato innervosire da cori che non erano razzisti, ma semplicemente dettati dall’antipatia del personaggio (che aveva già avuto diverbi con la curva e la città di Verona). Sui suoi canali social, La Gazzetta dello Sport ha sottolineato come Balotelli avesse calciato “con violenza” il pallone verso i tifosi, quasi a voler rovesciare la narrativa di quanto era successo, implicitamente facendo passare Balotelli dalla parte del torto, Sky Sport ha parlato di reazione “furiosa” dell'attaccante, come se l’aver calciato un pallone verso la curva potesse essere in qualche modo comparato a un tipo di violenza fisica. Per il “Corriere” l’ira di Balotelli è stata “funesta”. Era successo anche negli USA con Westbrook - diversi media avevano commentato la notizia dicendo che Westbrook, da professionista, avrebbe dovuto mantenere la calma - con la differenza però che immediatamente dopo l’accaduto la lega e i team si erano prontamente gettati dalla parte del giocatore.

Con Balotelli questo non è successo e anzi nell’immediato post-partita l’allenatore del Verona, Ivan Jurić, ha chiesto ai media di «non creare un caso dove non c’è», riducendo l’accaduto a sfottò da stadio. Gli ha fatto eco il Presidente dell’Hellas, Maurizio Setti, secondo cui «i tifosi del Verona sono particolari, hanno un modo di 'sfottere' gli avversari carico di ironia».
Sempre Setti ha detto che se gli stessi cori fossero stati indirizzati ad altri giocatori, si sarebbe tornati a giocare dopo un minuto. Il tono con cui i giornali hanno riportato queste dichiarazioni è emblematico della percezione del caso nella stragrande maggioranza del pubblico italiano. Quasi tutti i media italiani, a partire da Repubblica e Corriere, hanno inoltre riportato le assurde parole rilasciate a Radio Café da Luca Castellini, capo ultrà del Verona e esponente del partito Forza Nuova. Castellini ha ribadito come quella del Verona sia goliardia, rivendicando la libertà di utilizzare la parola “n***o”. Nessuno di quei media però ha pensato di contestare le parole di Castellini, o delegittimarle in qualche modo o ancora chiamarle per quello che sono: insulti razzisti

Implicitamente o no, la prima cosa che è stata fatta da tifosi e media è stato mettere in dubbio Balotelli, la sua reazione e la sua persona. Un modus operandi che assomiglia a quello della “colpevolizzazione della vittima”, messa in atto nei casi di abuso o violenza, una micro aggressione che va a sommarsi a quella più esplicitamente vocale.
L’Italia non è diventato un paese razzista dall’oggi al domani, né tantomeno lo sono diventate le curve. Oggi però, l’attenzione e l’intolleranza verso fenomeni di questo tipo, verso quegli insulti che ci si affretta a definire “goliardici” è aumentata: esiste una parte di popolazione che fa notare che tutto questo non è ok, e che cerca di contrastare il fenomeno. Lo fanno i calciatori e dovrebbe farlo tutto l’apparato sportivo italiano, senza eccezioni. L’accettazione della violenza razzista come goliardica è emblematica dell’accettazione stessa del razzismo. 
Gli ultras del Brescia l'8 novembre hanno pubblicato un comunicato nel quale esprimevano il loro parere sulla vicenda Balotelli, dichiarando che le tifoserie "non possono essere considerate razziste", condannando il gesto dei tifosi dell'Hellas ma trovando un contrappeso non necessario. Il comunicato è una condanna alla sufficienza con la quale è stata trattata la vicenda da parte dei media, una lettera in difesa della categoria e attacco personale a Mario Balotelli, definito "infantile e indisponente" causa di imbarazzo per la città e la tifoseria. In una vicenda che ha dell'assurdo, i tifosi del Brescia hanno preferito prendere una posizione difendendo il codice ultras e colpevolizzando Balotelli di essersi "innervosito" e di "dover sapere a cosa sarebbe andato incontro". Le parole della Ex-Curva Nord prendono le difese anche degli ultras dell'Hellas, dicendo che non tutti i tifosi sono razzisti, come se il punto del problema sia una questione di numero. 

Perché, dunque, in Italia si tende ad accontentarsi del razzismo? Solo qualche settimana fa, prima a Bergamo e poi a Cagliari, Dalbert e Lukaku erano stati vittime di cori razzisti che nel primo caso avevano portato alla sospensione della partita. Se l’Atalanta aveva condannato l’accaduto, lo aveva fatto «condannando ogni forma di discriminazione», senza però mai apertamente citare la parola razzismo. Né in quel caso né in quelli successivi di Cagliari o sempre di Verona, le società di Serie A si erano impegnate a individuare i responsabili dell’accaduto.

«Se quindi la maggior parte dei club italiani di Serie A e Serie B non crede che il razzismo negli stadi sia un problema serio, come lascia intendere ogni settimana, per quale motivo dovrebbe impegnarsi per istituire autoregolamentazioni e sistemi di controllo interni – investendo risorse per migliaia di euro – con lo scopo di punire chi si distingue per comportamenti discriminatori?», aveva scritto Il Post a settembre.

Basta sospendere per qualche secondo una partita perché si possa effettivamente parlare di lotta al razzismo o alle discriminazioni? No, soprattutto se il fatto non viene supportato da un racconto e da una narrazione dei media che aiuti in qualche modo a far sentire il peso della faccenda, evitando di adagiarsi sulla scusa del “gruppo di cretini”, evitando, dunque, di accontentarsi del razzismo.