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Perché in Brasile nessuno indossa la maglia n°24?

Non c'entra la scaramanzia ma l'omofobia del calcio brasiliano

Perché in Brasile nessuno indossa la maglia n°24? Non c'entra la scaramanzia ma l'omofobia del calcio brasiliano

Su 600 calciatori del Brasileirão, solo un giocatore ha indossato il numero 24 in questa stagione (Brenno Costa, terzo portiere del Gremio che ancora non ha mai esordito in una partita ufficiale), e la statistica non cambia se si guarda alle ultime stagioni. Può sembrare un caso, o magari una superstizione ma il motivo principale per cui nessun calciatore in Brasile vuole indossare il numero 24 -  la maledizione della 24, come viene chiamata da Bleacher Report - è decisamente meno goliardico di quello che ci si potrebbe aspettare.
Nel “Jogo do Bicho” (“il gioco dell’animale”, un gioco d'azzardo tradizionale brasiliano), ogni numero corrisponde a un animale e il 24 viene rappresentato dal cervo, tradotto in brasiliano con “veado” e associato a “viado”, termine con cui comunemente ci si riferisce a prostitute transgender. Ed ecco spiegata la repulsione nei confronti del numero di maglia in questione, al quale ogni giocatore cerca di sottrarsi per sfuggire alla facile insinuazione di essere gay o di uno che va con i viados.

La maledizione della maglia numero 24 è la proverbiale punta dell’iceberg del rapporto tra il calcio brasiliano e l'omofobia.
Episodi discriminatori sono frequenti e si estendono a ogni vertice del calcio brasiliano. L’ex attaccante dei Corinthians Emerson Sheik nel 2013 dovette addirittura scusarsi pubblicamente dopo aver postato una foto che lo raffigurava mentre baciava un amico. Il diluvio di sfottò costrinse Sheik a formalizzare le scuse, sostenendo che si trattò “semplicemente di uno scherzo”. Lo scorso agosto, il match tra Vasco da Gama e Sao Paolo è stato interrotto dall’arbitro a causa dei prolungati cori omofobi indirizzati ai tifosi paulisti, opposti solamente dall’intervento di Vanderlei Luxemburgo (allenatore del Vasco) e dall’annuncio dello speaker che minacciava la sospensione della partita. Questo episodio ha portato tutte le squadre del Brasileirão a schierarsi via social per sensibilizzare i priopri tifosi sulla questione. Ma tale improvvisa presa di posizione è sembrata una sorta di captatio benevolentiae scaturita dalla gravità del momento. Anche perché in un recente sondaggio in cui si chiedeva ai club brasiliani se fossero d’accordo o meno sulle penalizzazioni legate all’omofobia da parte della federazione, solamente il Bahia – società tradizionalmente sensibile a queste tematiche – si è dichiarato favorevole. 

Che le società brasiliane non siano generalmente sensibili al tema non stupisce, considerato l’atteggiamento intollerante dello Stato nei confronti dell’omosessualità. Il Brasile, secondo un report di GGB (Group Gay of Bahia), sarebbe il primo Paese al mondo per vittime LGBT+, con 445 morti legati all’omofobia nel 2017. D'altronde Jair Bolsonaro, presidente eletto il primo gennaio 2019, ha espresso con ferma convinzione la necessità di non far diventare il Brasile “una meta del paradiso gay”, dichiarando con altrettanta e spudorata fierezza di essere “molto orgoglioso di definirsi omofobo”.

“Era una scelta tra l’essere se stessi e l’essere calciatori. Era semplicemente impossibile essere entrambi”, dichiarò il brasiliano Douglas Braga subito dopo aver chiuso con il mondo del calcio a 21 anni. La storia di Braga, come quella dell'ex Aston Villa e Stoccarda Thomas Hitzlsperger che ha deciso di rendere noto il suo orientamento a ritiro avvenuto, dimostra come l'omosessualità sia il grande elefante nella stanza del calcio, dove ancora l'unico calciatore in attività a fare coming out è stato Collin Martin dei Minnesota United. L'omofobia nel calcio è un problema complesso e difficilmente risolvibile da una campagna di sensibilizzazione della UEFA: ha a che fare con la cultura dello sport, sulla voce che i calciatori hanno al di fuori del contesto sportivo e con il rapporto con la società contemporanea. Tuttavia non appare incoraggiante il fatto che molti calciatori negli ultimi anni si stanno esponendo sul problema del razzismo nel calcio ottenendo risultati concreti e l'impegno di federazioni e club, mentre ancora nessuno si è fatto portavoce di una causa che rimane confinata al silenzio.