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L'evoluzione del brand West Ham

Colpi da top club ma nessuna gioia sul campo: cosa sta succedendo nella nuova era degli Hammers?

L'evoluzione del brand West Ham Colpi da top club ma nessuna gioia sul campo: cosa sta succedendo nella nuova era degli Hammers?

Oltre alle date sportive da ricordare necessariamente - il 1964, il 1965, il 1975,  il 1980 e, in tempi recenti, grazie alla vittoria dell’Intertoto, il 2000 -  un grande anno per la storia del West Ham è stato il 2004, anno di uscita di Hooligans - Green Street Hornet. Un film molto apprezzato fuori dai confini nazionali che negli ultimi anni è stato proclamato uno dei più simbolici del mondo del pallone. Il West Ham era la squadra tifata da Elijah Wood e soci e nella pellicola emergono tutti i grandi stereotipi del mondo del tifo organizzato, che si tratti di hobbies o moda. Ma al di là di pinte e Stone Island, anche il marchio West Ham diventa famoso grazie al film, soprattutto per quello che riguarda la rappresentabilità di un club fuori dal contesto strettamente sportivo. Similmente agli Spurs - padroni di una delle zone nord di Londra -, il West Ham (insieme al Millwall) è un club di un borough socialmente difficile di Londra, l’East End, la zona dei docks londinesi. D’altronde i soprannomi della squadra in questo senso sono molto eloquenti: gli Irons, gli Hammers, coloro che lavorano il ferro e impugnano incudini. Da quì il mito di una squadra storica di Londra e del calcio inglese, che ha sempre vissuto in un impianto altrettanto iconico del british football, Boleyn Ground (o Upton Park, nome del quartiere e dell’adiacente fermata della metro).

Lo stadio

Entrare dentro Boleyn Ground voleva dire incontrare un’atmosfera unica ma al contempo simile ad altri stadi inglesi: il fish and chips, le sciarpe al collo dei tifosi, le bolle di sapone a inizio gara, i palloni raccolti direttamente nelle prime file. Eppure molti tifosi lamentavano una scomodità di fondo oramai divenuta insostenibile per i fan - spazi stretti e servizi usurati, in più una certa complicazione relativa alla zona contingente allo stadio, essendo Upton Park poco illuminata e pericolosa a certe ore -, e un nuovo stadio, almeno in termini di struttura, era diventato necessario.

Dall’East End tre anni fa si è passati al London Olympic Stadium, impianto molto grande costruito per le Olimpiadi del 2012 e preso in concessione dal West Ham come nuovo terreno di gioco domestico per i prossimi 99 anni. Un affare particolarmente economico, tra l’altro: lo stadio è stato costruito con i soldi dei contribuenti (600 milioni di sterline) su richiesta di Boris Johnson - ai tempi ex sindaco di Londra - ma il West Ham ha pagato solo 15 milioni di sterline per averlo. Come avvenuto per Highbury, non tutti i tifosi l’hanno presa bene, per diversi motivi. In primis per quello che rappresentava Boleyn Ground e i suoi seggiolini, uno stadio mitico in cui più che in altri impianti i giocatori potevano percepire in campo il calore e la vicinanza dei propri supporters. Poi per motivi geografici: si trova a Stratford, ad almeno mezz’ora di mezzi da Upton Park e non di certo nel quartiere originario della squadra – seppure molti hanno denunciato proprio le criticità di tale zona. Infine per ragioni strutturali. Il London Stadium è la cosa più lontana che ci possa essere da uno stadio inglese, con spalti distanti dal terreno di gioco e tribune che si alzano alte e dispersive (adesso, per risolvere il problema, il presidente Sullivan ha proposto di avvicinare le tribune al campo). Sicuramente gli Hammers ci hanno guadagnato in modernità e capienza dato che l’impianto dispone di una capienza di 60.000 posti (il vecchio Boleyn Ground ne contava appena 36.000). Oltretutto, tramite alcune dirette dichiarazioni di Karren Brady (vice presidente degli Hammers), il club ha ammesso di voler ampliare la disponibilità di altri duemila posti e arrivare dunque a 62.000, facendo di fatto diventare il London Olympic Stadium lo stadio più capiente della City, superando quelli di Chelsea, Tottenham e Arsenal. Negli anni l’obiettivo è quello di raggiungere quota 66.000, vale a dire la capienza massima per un evento sportivo in questo stadio: diverrebbe il secondo impianto più capiente della Premier League dopo l’Old Trafford. 

Il West Ham con questa mossa mira a diventare un club più globalizzato e allargato, appoggiandosi all’esigenza odierna di una società sportiva non più solo ancorata ai risultati del campo. E questo si è fatto notare. Gli Hammers da anni hanno difficoltà a issarsi come una delle migliori realtà della Premier League e anche raggiungere l’Europa sembra un miraggio ogni stagione. In un articolo scritto nel 2017, il Guardian spiegava come fosse inevitabile che gli Hammers si trasferissero in un nuovo stadio e che, oltretutto, volessero puntare a raggiungere i ricavi di altri club londinesi come Tottenham e Arsenal. E in questo senso il West Ham ha riempito (e bene) le proprie casse, ma sul campo, anche a causa di motivi ambientali (campo più largo, tifosi più distanti), la squadra ogni anno ha parecchie difficoltà. Oltretutto, da quando il club ha abbandonato Boleyn Ground, dal logo sociale sono sparite le torri dietro i martelli incrociati. Un altro segno di rottura con il passato.

Il brand

Inutile girarci attorno, il brand West Ham è uno dei più popolari della Premier League. Il cinema ha sicuramente aiutato l’espansione mediatica del marchio e di conseguenza, anche l’identità del club è diventata molto più popolare; l'Old Firm del West Ham è stata una delle più violente e celebri del periodo degli hooligans, tanto che anche il libro scritto da Cass Pennant, una delle figure più rappresentative del tifo organizzato degli Hammers, ha attirato molto interesse intorno al fenomeno. Nella cultura di massa il West Ham è diventato un’icona popolare: la squadra è passata dall’essere un club come tanti a lampione di una categoria di tifo caldo e spregiudicato. Ciò ha riscosso molto successo fra le categorie di appassionati di un certo tipo di contesto calcistico, e dunque, grazie a questa nomea, l'essere Hammers è diventato negli ultimi anni un’esempio di stile e cultura sportiva, non più una semplice squadra della parte destra della classifica. Da quì il proliferare di simboli come il logo del club sulle sciarpe e sulle felpe, un benchmark diventato commerciale e riconoscibile come rappresentante di uno “status di tifo e sostenimento”. Nello stesso tempo non è da sottovalutare l'influenza di celebrities ed ex giocatori, che non hanno mai nascosto le loro simpatie per il club: da Paolo Di Canio per finire a Pixie Lott e Katy Perry, fieri ambasciatori del tifo Irons.

La squadra

La questione stadio è il punto di partenza per parlare di un cambiamento che coinvolge – inevitabilmente – pure il campo. Negli ultimi nove anni il West Ham ha cambiato trentasette attaccanti, una sfilza di (presunti) bomber che va da Andy Carroll a Marko Arnautovic, passando per Marco Borriello, Ayoze Perez e da pochi giorni il neo acquisto Haller, l'attaccante francese dell’Eintracht Francoforte per cui sono stati investiti 40 milioni di Euro. Confrontando la rosa della stagione 2014-2015 - l’ultima della gestione Allardyce - con quella di oggi, si nota che anche nel mercato la dirigenza ha scelto un modus operandi diverso. Da Tomkins, Noble, Collins e Carroll si è passati ad Arnautovic, Wilshere, Felipe Anderson e Hart. Negli anni gli Hammers hanno diminuito stagione dopo stagione il numero di giocatori britannici nel roster, modificando il proprio player trading verso una ricerca più distesa e economicamente più dispendiosa; in termini di numeri, si è passati dagli appena 35 milioni sborsati nell’estate 2015 agli 83 della stagione 2016/2017 e soprattutto ai 100 milioni spesi durante la scorsa campagna acquisti. E anche il numero di giocatori inglesi è calato: dai diciotto del 2014/2015 ai quindici del 2018/2019. Nonostante ciò, per gli Hammers gioca uno dei talenti più promettenti della nuova next generation di Sua Maestà: il mediano anglo-irlandese Declan Rice, un classe 1999 con un valore di mercato altissimo (45 milioni secondo Transfermarkt). 

Anche in panchina le cose sono cambiate. Dopo tre stagioni affidate a Big Sam Allardyce, uno dei manager più all’inglese che si possano contare ancora oggi in Premier League, si sono succeduti Slaven Bilic e Manuel Pellegrini, allenatori stranieri e con un apprezzato tasso di riconoscibilità all’estero. Unico interregno fra i due manager stranieri è stato il breve periodo di David Moyes, vissuto fra mille difficoltà. Il fenomeno dei tecnici stranieri in Premier League è un motivo di discussione già affermato da anni e anche il West Ham rientra in questa sorta di esterofilia delle panchine. La spesa per la costruzione della squadra è aumentata negli anni ma non sembra aver portato a una soluzione catartica. Il West Ham ha ballato sempre nella parte destra della classifica rischiando, tra una figuraccia ed un'altra, molto spesso la red zone degli ultimi posti: da quando il club si è trasferito nel nuovo impianto – cioè dal 2016 -, gli Hammers non hanno mai superato il decimo posto in classifica, senza mai riuscire ad impensierire le big di turno. Al contrario, l’ultimo sussulto interessante degli Irons è registrato nella stagione di chiusura di Boleyn Ground, in cui il West Ham arrivò – con Bilic – ai preliminari di Europa League, pur rimediando un incredibile eliminazione. 

Nonostante paia che il vecchio universo del West Ham sia migliore del presente, gli Hammers stanno fagocitando risorse importanti. Il club ha raggiunto quel miglioramento figurativo-economico che sperava di archiviare con il trasferimento nel nuovo impianto. Più code e spese ai botteghini, più code e introiti negli store ufficiali. Che poi questo conduca anche verso risultati migliori in campo, per il momento, sembra difficile da confermare.