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La lunga e travagliata storia dei portieri brasiliani

Da Barbosa ad Alisson, il Brasile ha finalmente imparato ad apprezzare i suoi estremi difensori

La lunga e travagliata storia dei portieri brasiliani Da Barbosa ad Alisson, il Brasile ha finalmente imparato ad apprezzare i suoi estremi difensori

Al primo posto della classifica mondiale delle persone più sole al mondo, prima di divorziati, single e presidenti del consiglio vari, ci sono i portieri. Il ruolo più ramingo per antonomasia svetta sulla Montagna della Solitudine e guarda tutti dall’alto, con quella malinconia convinta caratteristica di chi è arrivato sì in cima, ma ci è arrivato da solo.

Poco distante da questa montagna, però, ne sorge un’altra, ed è ancora più imponente, ancora più maestosa. Da queste parti la chiamano il Picco dell’Isolamento, e lassù, sul gradino più alto, siedono tutte quelle persone che appartengono all’unica categoria ancora più sola rispetto agli estremi difensori: i portieri brasiliani, disposti in circolo, pregano il loro Dio Gilmar nella speranza di comprendere il futuro, come odierni auguri con il compito di predire la prossima vittoria del Brasile ai Mondiali.

 

Dall’assurda storia di Barbosa al mito di Gilmar

All’inizio non è stato facile. Le prime pagine di questa storia raccontano di bambini che rincorrono un pallone tra dribbling e doppi passi, estro e fantasia al potere, quando la tecnica era il sale di un mondo sciapo. Quale folle, in Brasile, sceglierebbe di fare il portiere? Ci ha provato anche il figlio di Pelè, Edinho, ma è stato fermato praticamente subito: “Tuo padre ha segnato mille gol, tu ne subirai altrettanti: lascia stare”. 

A Rio de Janeiro, invece, la questione era ancora più drastica: “Se decidi di giocare in porta o sei matto o sei frocio”, si diceva, e tanto bastava per scoraggiare tutti i possibili giovani talenti. La palla veniva quindi poggiata a terra e presa a calci, e a chi toccava l’ingrato compito di fermarla con le mani non restava neanche un briciolo di gloria.

Lo ha sperimentato sulla sua pelle Moacyr Barbosa, uno dei primi, iconici portieri brasiliani, che viene ricordato quasi esclusivamente per il Maracanazo del 16 luglio del 1950, quando il Brasile perse incredibilmente la Coppa del Mondo contro l’Uruguay per 2-1. Il portiere, in occasione della seconda rete della Celeste, lasciò sguarnito il suo palo di competenza e permise a Ghiggia di realizzare il gol vittoria. Da quel momento in poi, Barbosa venne additato come portatore di tutti i mali del mondo e cadde in depressione

Una sorte decisamente migliore, invece, è toccata a Gilmar. Lui sì, primo vero mitico estremo difensore brasiliano, senza fango buttato addosso ma ricoperto al contrario di gloria eterna. Unico portiere a vincere due Mondiali (consecutivi, tra l’altro), in Gilmar è racchiusa tutta la rivincita di una categoria che in Brasile è stata fin troppo bistrattata. Due volte grande, due volte eroe: prima in Svezia, nel 1958, poi in Chile, nel 1962. 

Gilmar era un personaggio caratteristico, estremamente riconoscibile: a differenza dei portieri di oggi non indossava i guanti e scendeva in campo con i pantaloncini corti per non essere troppo limitato nei movimenti. Una scelta azzeccata, visti i risultati: elegante e longilineo, alto ma allo stesso tempo reattivo, leader dentro al campo, leader dello spogliatoio. È stato il papà dei portieri brasiliani moderni, ha fatto scoprire questo ruolo ai giovani”, ha commentato una volta José Altafini. Di sicuro Gilmar, in un’occasione, è sembrato il padre di Pelé. Una foto memorabile, direttamente da Svezia ‘58, scattata dopo il trionfo verdeoro.

Ascesa mondiale

Negli anni a venire, poi, all’elenco degli eroi si sono aggiunti anche altri nomi incisi nella storia. Alcuni sono legati indissolubilmente alle altre vittorie del Brasile ai Mondiali, come successo a Felix in occasione di Messico 1970 o a Marcos nel 2002 nell’edizione Corea-Giappone, altri invece sono semplicemente memorabili per importanza implicita e senza bisogno di medaglie al collo, come Emerson Leao e l’incredibile Rogerio Ceni, capace di segnare oltre 100 gol in carriera.

Per quanto riguarda la Serie A, comunque, il primo a farci conoscere da vicino la forza verdeoro tra i pali è stato Claudio Taffarel: Campione del Mondo in USA ‘94, arrivato in Emilia anche con lo scopo di esportare all’estero il marchio Parmalat, Taffarel ha inaugurato una tradizione che, nel nostro campionato, negli anni è proseguita in maniera sorprendente. 

In questo senso, Dida e Julio Cesar rappresentano sicuramente l’eccellenza assoluta: uno al Milan, l’altro all’Inter; uno capace di vincere due Champions League da protagonista, l’altro entrato di diritto tra gli eroi del Triplete. Diversi per lo stile di stare tra i pali e per il modo di vivere il campo, i due brasiliani hanno combattuto per anni la monarchia illuminata di Gigi Buffon arrivando anche a rubargli la copertina tricolore in alcune occasioni. 

Oltre alle milanesi, un'altra squadra di Serie A con un rapporto speciale con i portieri brasiliani è sicuramente la Roma: i giallorossi hanno iniziato il loro percorso di “brasilianizzazione” dei pali con Doni, per poi proseguire la storia della porta verdeoro con Julio Sergio. Il vero pezzo da novanta, però, arriva solamente nel 2016: Walter Sabatini decide di prelevare dall’Internacional un ragazzo non più giovanissimo (aveva già 24 anni) per 8 milioni di euro, e per tutta la prima stagione romana quel nome brasiliano resta quasi sempre all’ombra di Szczęsny. Poi arriva il suo turno e lui conquista la scena: Alisson convince tutti grazie a parate decisive e giocate sopraffine, sembra un trequartista adattato tra i pali, con la tecnica di un fantasista e l’esplosività di un vero portiere. Il Liverpool decide così di pagare la somma record di 75 milioni di euro e di portarlo in Inghilterra, dove militava già (e milita ancora) Ederson, altro esponente di spicco della scuola brasiliana che Oltremanica aveva già trovato un grandissimo esponente in Heurelho Gomes

Forti e reattivi, ma anche bravi con i piedi e partecipativi: i portieri brasiliani in questi anni occupano ruoli di primo piano e si sono ripresi la loro rivincita, trovando il giusto mix tra l’abilità tecnica palla al piede (oggi fondamentale) e difesa dei pali. L’estremo difensore verdeoro adesso è osservato da vicino, apprezzato, richiesto. Di recente, il Genoa ha portato nel nostro campionato Jandrei (classe 1993, in lotta con Radu per il posto da titolare), mentre l’Inter ha deciso di puntare su Brazão (classe 2000), girato momentaneamente in prestito al Parma in un’operazione che ricorda molto quella con il Chievo per Julio Cesar. Ed entrambi i club sperano di avere tra le mani il nuovo Taffarel, il nuovo Dida, il nuovo Gilmar. Nel frattempo, in Brasile, qualche bambino ignaro di tutto questo starà già sognando di diventare il nuovo Alisson.  E le prese in giro sembrano solo un lontano ricordo.