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Parlare di Rivaldo

L'eleganza, i trofei, il Barcellona e gli scarpini Mizuno

Parlare di Rivaldo L'eleganza, i trofei, il Barcellona e gli scarpini Mizuno

Parlare di Rivaldo è tornare indietro, ripensare a quell’ex con la quale eri stato bene, era tutto bellissimo, poi avevate provato a tirare avanti la storia un po’ troppo, e non era finita bene; parlare di Rivaldo è nostalgia, ma non quella nostalgia che ti fa dire “Rivaldo era meglio di Messi e Cristiano Ronaldo”, no: Rivaldo è la nostalgia di un passato limpido, luminoso, al quale oggi non riesci più a trovare un difetto. E nel quale vorresti maledettamente tornare.

Parlare di Rivaldo è parlare di trofei, personali e di squadra. Due su tutti, per descriverne la grandezza: il Pallone d’Oro e il Mondiale vinto da co-protagonista. Nel 2002 Rivaldo era uno dei giocatori più forti del mondo, giocava in uno dei Brasile più forti di sempre, ha segnato in tutte la partite disputate, finale a parte, e comunque non ha conquistato la scena, presa da un altro che portava la desinenza in -aldo e con i piedi ci sapeva fare.

Parlare di Rivaldo è parlare di un modo diverso di intendere l’attacco e il fronte offensivo nel suo complesso, una zona del campo che si apriva a dismisura prima nella sua mente e poi sull’erba, con la grandezza virtuale del terreno che si allargava e si stringeva a seconda della sua volontà, dei suoi capricci da fenomeno. Parlare di Rivaldo vuol dire quindi parlare anche dei suoi dribbling, delle sterzate e degli avversari lasciati indietro a chiedersi perché.

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Parlare di Rivaldo è parlare del Deportivo, anzi, di quel Deportivo: era la stagione 1996/1997, la prima del brasiliano in Europa, e la sua luce brillò come brilla un anello appena mostrato alla futura sposa: il mondo del calcio europeo ha risposto alla domanda di Rivaldo, ha detto sì, ha accettato di sposare quel ragazzo che sembrava già grande, dai tratti somatici duri e che in campo faceva impazzire tutti. A fine stagione il bottino sarà di 21 gol, con il terzo posto del Deportivo in Liga. Un’esplosione tale da convincere il Barcellona a portarlo via da lì e a mettergli addosso la maglia blaugrana. Con un solo compito: non far rimpiangere Ronaldo.

 

E allora parlare di Rivaldo è parlare del Barcellona, dove la sua luce verde e oro ha illuminato più volte il Camp Nou, con dei picchi di lucentezza che per un momento hanno fatto pensare che no, non esisteva nessun altro calciatore, al mondo esisteva soltanto Rivaldo, e i suoi gol e le sue giocate. Uno di quei momenti è stato sicuramente la tripletta segnata sotto il cielo di un San Siro che, probabilmente, quella sera ha accarezzato per la prima volta l’idea di rubare la moglie al Barcellona.

Con la maglia blaugrana scenderà in campo 235 volte, segnando 130 gol, servendo 41 assist, vincerà la Liga per due anni consecutivi e alzerà anche il Pallone d’Oro. In cinque anni di storia blaugrana e tra tutte quelle reti, il regalo più bello di Rivaldo al Barcellona forse resta questo: una giocata che parla da sola e che ci dice chi era Rivaldo e cosa è stato per il Barcellona.

Era amore vero, altroché.

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Che niente dura per sempre, figurati io e te cantano i Baustelle, le stesse parole che Rivaldo avrà detto al Barcellona nel momento dell’addio. Un saluto un po’ così, per una storia che non avrebbe mai potuto avere una chiusura serena. Nessuna grande storia d’amore può avere una chiusura tranquilla, altrimenti che razza di grande storia d’amore sarebbe?

E allora è iniziato il pellegrinaggio di Rivaldo alla ricerca di parole nuove, ma a Milano ne ha trovata una inaspettata (“umiliazione”) e allora è volato in Grecia, è rimasto tre anni lì a vincere tutto e a divertirsi con l’Olympiacos.

Poi una parentesi all’AEK Athene e un altro giro del mondo (Uzbekistan). Infine, il ritorno in Brasile a 37 anni, da calciatore ma anche da presidente del Mogi Mirim, club nel quale aveva giocato da bambino. Senza nessuna voglia di appendere gli scarpini al chiodo di lasciare quel calcio che gli aveva dato così tanto, e al quale lui aveva dato almeno altrettanto. Rivaldo, valigia in mano, ha continuato a ciondolare sul pallone da una parte all’altra, con quella sua struttura fisica immensa che ne ostacolava l’agilità ma ne esaltava paradossalmente la tecnica. Dalla testa ai piedi, un genio applicato al calcio che sapeva come nascondere la sua stazza e farla diventare improvvisamente leggera, per poi sfruttarla a suo favore nei contrasti spalla a spalla. Rivaldo planava sul campo, toccava appena il terreno con i suoi iconici Mizuno ai piedi, uno scarpino perfetto per lui, coerente con la sua estetica che il brand giapponese ha recentemente riproposto in edizione limitata.

Parlare di Rivaldo è anche parlare di un tramonto lungo, lunghissimo, forse anche troppo lungo, ma questo poteva deciderlo soltanto lui, che ha scelto di continuare a oltranza: San Paolo, l’Angola, un nuovo ritorno in Brasile, la chiusura ancora al Mogi Mirim, un cerchio gigantesco che trova finalmente la sua fine. 

È il 2014, Rivaldo ha 42 anni, di lui si è parlato tanto, ma adesso i riflettori sono altrove. Decide di ritirarsi, anzi no, ritorna ancora in campo nel 2015, quando gli anni sono 43. Non molla, Rivaldo, e nel mentre il Barcellona ha trovato di nuovo l’amore (che stavolta parla argentino), ha vinto ed è stato felice anche senza Rivaldo. Che, comunque, si è consolato con un evento raro, rarissimo, il trionfo del calcio applicato alla famiglia: prima di dire veramente basta ha giocato una partita insieme al figlio Rivaldinho, nella quale entrambi sono andati in gol.

Parlare di Rivaldo, in sintesi, è parlare del calcio e di tutte le sue facce, di tutte le sue storie, i lati illuminati e le zone d’ombra, una tripletta a San Siro e un ritiro lungo, lunghissimo. Come se quel racconto non dovesse finire mai.

Come una grande storia d’amore.