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La miglior serie sulle tecniche di combattimento nel mondo

Su Netflix, Fightworld restituisce il fattore umano agli sport da combattimento

La miglior serie sulle tecniche di combattimento nel mondo Su Netflix, Fightworld restituisce il fattore umano agli sport da combattimento

A guardare una foto di Frank Grillo non credo che nessuno gli darebbe più di quarant’anni, al massimo. Invece l’attore statunitense ha ben cinquantatré primavere sulle spalle: la sua apparente giovinezza non è assimilabile a quella dei colleghi hollywoodiani, non sembra essere frutto di ore e ore di make up e ritocchi vari, quanto più che altro di giorni passati in palestra a sudare. Grillo, il cui ruolo più famoso è quello di Crossbones nell’universo Marvel, è un fanatico di sport da combattimento, e un grande ammiratore del compianto Anthony Bourdain e dei suoi show in giro per il mondo per conoscere la cultura attraverso il cibo locale.

Unendo queste due passioni, l’attore ha sottoposto a Netflix l’idea di uno show sulla falsariga di quelli di Bourdain: girare il mondo per conoscere lo sport da combattimento del luogo e come questo si integra nella società da cui ha origine. La serie si compone di cinque capitoli, ognuno di circa quaranta minuti e con un titolo suggestivo, di stampo cinematografico, così come lo sono il taglio e lo stile delle riprese. Capitoli, non puntate, perchè ognuno si svolge in un paese diverso: Messico, Thailandia, Birmania, Senegal e, infine, Israele.

Negli ultimi anni l’attenzione mediatica riservata agli sport da combattimento ha toccato picchi con pochi precedenti. È stata quasi monopolizzata dalle MMA, in particolare dalla UFC e dall’epopea personale di Conan McGregor, vera superstar mondiale.

Le scintillanti arene gremite di pubblico, le borse milionarie per gli incontri, la narrativa aggressiva, a tratti eccessiva messa in piedi, hanno fatto scoprire a tantissimi il mondo delle arti marziali miste, ma più in generale degli sport di contatto, anche gli stili più “esotici”, al di là della mai fuori moda boxe. Forse quello che in questa corrente narrazione e percezione dello sport manca, è da dove abbiano origine queste tecniche, geograficamente ma ancor più socialmente, al di là quindi della retorica vera o costruita del fighter che parte dal nulla per arrivare in cima al mondo: il rapporto reale di queste discipline con la terra da cui provengono e le persone che gli dedicano interamente la propria vita. 

"This is not a show about fighting. This is a show about the people who fight."

 

E01 - Pistola y corazón

La prima tappa è in Messico. Qui, in uno dei quartieri più difficili della città, ci muoviamo attraverso palestre che hanno dato origine a veri e propri campioni indimenticabili come Julio Chesar Chavez e carceri maschili e femminili in cui la boxe è strumento di controllo della rabbia ed emancipazione dalle dipendenza, di speranza per un futuro migliore. È forse l’inizio perfetto per una serie il cui scopo è raccontare questo mondo: partiamo infatti dalla boxe, fra gli sport più seguiti della storia, la “nobile arte”. La boxe messicana poi nasconde in sé un messaggio ulteriore oltre tutti quelli di cui è già carica per antonomasia questa disciplina. Ciò su cui verte la puntata è infatti che i pugili messicani, di tutte le categorie, sesso, età e peso, hanno in comunque una sola cosa: mai andare indietro. La boxe messicana si pratica solo in avanzamento, rischiando tutto, accettando di prendere dei colpi per poterne restituire il doppio, il triplo.

 

E02 - Il figlio fortunato

Per la seconda puntata svolgiamo un bel salto geografico e siamo catapultati in Thailandia, dove seguiamo la preparazione per un incontro di un giovanissimo atleta di muay thai, “l’arte degli otto arti”. Chiamata così poiché nella disciplina thailandese si usano due pugni, due gomiti, due ginocchia e due gambe.  Grazie all’immersione nella preparazione fisica e mentale del ragazzo, Inseepayong, scopriamo come la disciplina sia principalmente utilizzata dai ragazzi nate in famiglie povere, in cui spesso non tutti i figli riescono ad essere mantenuti: per questo i pugili sono giovanissimi e si ritirano ancora relativamente in giovane età, spesso molti a 24 anni possono vantare già più di duecento incontri sulle spalle. In molti si uniscono alle palestre di muay thai da pre-adolescenti, nelle quali conducono un rigoroso stile di vita fatto di sveglie all’alba e allenamenti massacranti inframmezzati dalla scuola, tutti i giorni. Capiamo anche che lo sport è alimentato principalmente da un feroce gioco d’azzardo, così prominente e fondamentale che gli stessi fighter vengono informati durante i match delle quote sulla loro vittoria, e condividono una parte delle borse degli allibratori.



E03 - A un bivio

L’episodio forse più affascinante è quello girato nel Myanmar, o Birmania.  

Un paese complicatissimo, democraticamente giovane e scosso da continue lotte intestine fra le varie etnie che lo abitano, oltre che soggetto a una centenaria colonizzazione: come si può intuire da ciò, le condizioni economiche sembrano essere assolutamente disperate. Il Lethwei, lo sport qui analizzato, è una specie di muay thai con una brutale differenza: si può usare anche la testa, e per questo è chiamato l’arte dei nove arti - i guanti poi sono praticamente inesistenti. Questa puntata è sicuramente la più estrema, a livello sociale e fisico. L’uso della testa in combattimento può essere devastante, le immagini lasciano pietrificati anche solo dallo schermo; stessa reazione che si ha ascoltando le storie di estrema povertà della maggior parte dei fighter.

Non tutti però: la puntata verte proprio sull’organizzazione del primo campionato mondiale di Lethwei, con atleti anche professionisti e benestanti provenienti da tutto il mondo, in un tentativo di aprire la disciplina a un pubblico più vasto. Il conflitto fra tradizione e modernità, con tutto ciò che comporta a livello morale o economico, terrà banco fino alla fine.

“Questo è ciò che mi ha spinto a fare lo show: capire cosa possa mettere una persona, uomo o donna, in questa mentalità per la quale sei pronto a rischiare tutto. Cosa glielo fa fare. Non sono i soldi, perché la maggior parte di loro non guadagna soldi; va quasi contro la natura umana, è incredibile. Penso che queste persone nascano quasi con un DNA diverso dagli altri: fa veramente  male combattere, non solo l’incontro, ma la preparazione, la quantità di allenamento e coraggio che devi accumulare, il livello di rischio che accetti. Sono veramente degli essere umani differenti.“

 Frank Grillo on The Rich Elsen Show

 

E04 - Se perdo la grazia di Dio

Dopo due puntate di seguito in Asia si cambia continente e si vola in Africa, a Dakar in Senegal. Qui Grillo arriva nel mezzo della preparazione all’incontro di due leggende locali della lotta Laamb, lo sport nazionale. Due giganti buoni da più di una tonnellata ciascuno, venerati nei rispettivi quartieri come eroi, quasi divinità, coerentemente con lo sport praticato; un misto di preparazione fisica, lotta, boxe, superstizione religiosa e tradizioni folkloristiche. Qui più che in ogni altra puntata si percepisce il legame a doppio filo non solo con il proprio paese, ma con il proprio quartiere. Sembra quasi una rivalità calcistica, un derby: ognuno con i propri tifosi, i propri cori, e un confronto che prima ancora che sul ring di sabbia si svolge per le strade e gli spalti. Tragicamente solo ventiquattro ore prima, nello stadio in cui il combattimento avrebbe dovuto prendere luogo, durante una partita di calcio una parte delle tribune crolla a seguito di tumulti e agitazioni, uccidendo otto persone. L’incontro viene annullato e i fighter e tutta la popolazione si stringono attorno alla comunità, e alle persone afflitte in prima persona dalla tragedia, affidandosi alla religione, all’Islam e una parola chiave: Inshallah, “se Dio vuole”.

Sei mesi dopo l’incontro si svolgerà con la benedizione del presidente della repubblica del Senegal nello stadio più grande del paese.

 

E05 - Maestri della guerra

Per ultima arriva la puntata più controversa di tutte. Grillo vola in Israele, per entrare a contatto con il krav maga, che non è uno sport da combattimento ma una vera e propria arma, come definito nella puntata stessa “il modo più veloce ed efficace per uccidere un uomo”, insegnato alle truppe israeliane come arma di difesa.

Se a livello narrativo la scelta è coerente, essendo Israele per lo più un luogo non esattamente accessibile o comunque percepito quasi come estremo, non lo è da un punto di vista sportivo, perché la puntata finisce per essere più un lungo discorso di stampo filo-americano su religione, politica e umanità che l’esplorazione di uno sport da combattimento.

Concludendo, Fightword rispetta le promesse della seria: fare uno show più sulle persone che combattono che sul combattimento stesso. Ciò che emerge da ogni puntata, grazie anche a una interessante e coinvolgente regia e alle capacità d’intrattenimento di Grillo, vero mattatore sia grazie alla presenza scenica che alla voce coinvolgente, è l’umanità di cui sono intrisi questi sport che spesso visti da fuori possono sembrare essere esclusivamente violenti e praticati quasi da mitomani con la fissa per le borse milionaries.

Con l’eccezione dell’ultima puntata, una parentesi veramente fuori luogo anche se provata a farla passare come equivalete alle altre, Fightworld è effettivamente interessante e si rivela una buona occasione per imparare qualcosa in più su paesi, culture e sport da noi lontani ma decisamente affascinanti.