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Perché lo sponsor dell'Arsenal è un problema

Il rapporto tra l'Arsenal e il Rwanda dovrebbe far riflettere il mondo del calcio

Perché lo sponsor dell'Arsenal è un problema Il rapporto tra l'Arsenal e il Rwanda dovrebbe far riflettere il mondo del calcio

Non è un mistero che la Premier League sia il campionato più ricco del mondo. Un primato dovuto a diversi fattori, non ultimo i contratti di sponsor sulle maglie delle squadre, che generano un utile da 281.8 milioni di sterline, circa 310 milioni di euro: una somma spaventosa, non esente da critiche. Sono infatti ben nove i club di punta che hanno impresso sulle proprie casacche sponsor legati al mondo delle scommesse, un fatto non passato inosservato ai laburisti che vorrebbero vietare, tramite una proposta di legge, questo tipo di rapporti commerciali, considerando le “scommesse come il tabacco”. Sarebbe interessante capire qual è la posizione del capogruppo laburista Tom Watson, firmatario della proposta, circa uno sponsor che non ha a che fare con le scommesse, ma che è decisamente molto particolare e non meno controverso, essendo fornito da un supporter dell’Arsenal molto speciale: Paul Kagame, il presidente del Ruanda. Kagame non ha mai nascosto di essere un accanito tifoso della squadra londinese, anche criticando apertamente negli anni l’operato di Arsene Wenger: è proprio a partire dal “primo anno dopo Wenger” che Kagame ha stretto un serio rapporto fra la sua squadra del cuore e il suo paese. Al debutto della squadra lo sleeve sponsor sulle maglie dell’Arsenal ha difatti lasciato confusi e sbalorditi in molti: una striscia rosa salmone, su cui campeggia lapidaria la scritta “Visit Rwanda”.

Il Ruanda è un piccolo stato dell’Africa orientale, diventato tristemente famoso nel 1994 a causa del genocidio in cui morirono più di un milione di persone, uno dei più feroci del ventesimo secolo. Dopo anni di confusione e il semi-fallito tentativo di stabilire dei responsabili per l’accaduto, nel 2000 è proprio Paul Kagame, leader dei ribelli che contribuirono a far cessare il genocidio, ad essere eletto presidente della Repubblica. A partire da allora Kagame si è imposto sulla scena politica del suo paese in modo assoluto e decisamente poco trasparente. Secondo Amnesty International infatti, già nel 2003 Kagame avrebbe sciolto il principale partito di opposizione e costretto la popolazione ad iscriversi al suo, il FPR; ad oggi per altro non sembrerebbero esistere mass media indipendenti, ed è stato riportato per certo come, negli anni, siano stati uccisi diversi giornalisti e oppositori politici. Nelle elezioni successive alla sua prima elezione del 2000, Kagame ha ottenuto dei risultati che hanno lasciato ben poco all’immaginazione e hanno allarmato la comunità internazionale (che mai però è intervenuta in modo diretto) circa la sospetta non democraticità e la manipolazione dei risultati: Kagame ha ottenuto il 95% dei voti nel 2003, il 93% nel 2010 e addirittura il 98% nel 2017, venendo rieletto per la terza volta consecutiva grazie a una riforma costituzionale del 2015, promossa da un referendum effettuato su pressioni del FPR, che ha così eliminato l’ostacolo costituzionale secondo il quale Kagame non si sarebbe potuto candidare per una terza volta. Kagame gode di fama ambigua in campo internazionale. Lodato da molti vista l’attenzione alla crescita economica del proprio paese, l’investimento in infrastrutture e nelle nuove tecnologie, oltre alla promozione dell’inclusione delle donne in politica (il Ruanda è lo stato africano con più parlamentari di sesso femminile), è però criticato da più parti per i suoi modi autoritari al limite dello spietato - una commissione anti-tortura delle Nazioni Uniti in visita la scorso anno è stata ostacolata e costretta ad andarsene dalle autorità - per la repressione indiscriminata dei suoi avversari politici e per il ruolo giocato dalle milizie, di cui una volta era a capo, durante il genocidio del confinante Congo.

Probabilmente mentre leggevate questo lungo spiegone iniziale, in testa ha cominciato a montarvi una domanda molto semplice, in modo sempre più urgente e deciso: ma quindi cosa ci azzecca l’Arsenal con un paese così problematico? Se lo sono chiesti in molti, fin da quando l’accordo commerciale (sembrerebbe di circa 30 milioni per 3 anni, cifra non confermata) è stato resto noto alla fine dell’estate. Una trovata del genere solleva problemi e domande sia da una parte che dall’altra. La leggerezza con cui la dirigenza dei Gunners ha associato il proprio brand, quello di una delle squadre di calcio più seguite al mondo, a uno dei paesi più problematici e dal leader più discusso, è abbastanza disarmante e anche molto indicativo del clima sportivo e politico con cui ci troviamo a fare i conti ogni giorno di più. Nel Regno Unito, The Independent ha parlato della faccenda come di un ulteriore esempio "dell’apatia morale che sta avvelenando il calcio”, ed è difficile dargli torto. D’altronde basta pensare all’organo governativo del calcio mondiale, la FIFA, e la pochissima trasparenza generale dimostrata negli anni, talmente presente e riconosciuta da essere anche diventata tema letterario. Continua ad essere scottante infatti, solo per parlare dell’ultimo problema in ordine temporale, la questione del mondiale del 2022 affidato al Qatar, un paese già di per sè abbastanza tribolato e non proprio limpido quando si parla di flussi di denaro e politica; quest’estate infatti sono emersi due problemi che forse non hanno avuto il risalto che avrebbero meritato: sono state mosse accuse pesanti al Qatar circa una possibile campagna di diffamazione, tramite la manipolazione dei media a livello mondiale, portata avanti nel 2010 a discapito degli avversari del paese arabo nella corsa all’aggiudicarsi la coppa del mondo. La FIFA è stata sollecitata ad aprire un’inchiesta in merito, ma ad oggi ciò non si è ancora verificato. Ancora più gravi le condizioni dei lavoratori agli impianti che saranno usati per la competizione, da più parti definite come assimilabili allo schiavismo. È stato riportato che, a partire dal 2012, più di 500 lavoratori indiani e 382 nepalesi sono morti sul lavoro in due anni, a oggi le cose non sembrano essere migliorate. Anche qui la FIFA è stata sollecitata da più parti ad indagare e prendere una posizione in merito, ma anche sta volta ciò non è accaduto. Senza scordare i campionati del mondo in terra Russa appena passati: poche settimane prima dell’inizio fioccavano condanne dagli organismi internazionali, date le indagini ancora fresche legate all’uso di doping da parte degli atleti russi e alla feroce repressione e discriminazione riservate agli atleti e in generale alla comunità LGBT. Poi le partite sono iniziate, Putin ha catechetizzato e messo in riga i suoi, e tutti, ansiosi di godersi le partite, si sono scordati della montagna di contraddizioni e problemi con cui il paese ospitante si era presentato all’inizio della competizione.

Tutto questo per dire che, se l’organismo a cui ogni squadra di calcio professionistica deve rendere conto detta questo tipo di esempio, non è proprio fantascienza che anche i singoli club prendano alla leggera andarsi ad invischiare in rapporti del genere. L’Arsenal non è neanche il primo top club del mondo a farlo, ma il suo caso è senza dubbio particolare. Non si capisce infatti cosa dovrebbe ottenere la società dall’accordo, dal momento che il movente economico regge solo in parte; un club così importante, del campionato più seguito del mondo, non avrebbe fatto fatica a trovare un altro sponsor disposto a sborsare quelle cifre, se non maggiori. Paradossalmente l’unica spiegazione che al momento sembra reggere è quella della pura passione sportiva da parte di Kagame, che affascinato dall’idea di lasciarsi coinvolgere nella vita commerciale della proprio squadra ha deciso di investire una somma enorme per un paese così piccolo e povero. Proprio questo è l’altro grande problema, per cui sulla graticola è invece finito il presidente del Ruanda: come si può pensare che sia una mossa giusta quella di investire trenta milioni di euro per sponsorizzare una squadra inglese, quando più della metà del tuo popolo vive in estrema povertà? (Mediamente un cittadino ruandiano vive con circa una sterlina al giorno). La risposta del governo è arrivata univoca da più parti: più turismo significherà più fondi da investire nella lotta alla povertà. Si è esposto in particolare il capo del dipartimento dello sviluppo, Clare Akamanzi, sempre attraverso Twitter, strumento incredibilmente usato dai politici del paese, in primis dal suo presidente.

Una motivazione che fa molta fatica a reggere e sembra nascondere la volontà del leader del Ruanda di normalizzare sempre più il proprio paese agli occhi della comunità occidentale (da qui ad esempio anche il compulsivo utilizzo dei social), operazione già in parte riuscita vista l’ottima considerazione che alcuni capi di stato riservano a Kagame. Non quindi una sincera volontà di accrescere lo sviluppo economico e le condizioni sociali della propria gente, ma un guadagnare punti in campo internazionale per continuare a fare i propri comodi; la posizione dell’Arsenal che si presta a questo meccanismo senza colpo ferire diventa quindi ancora più grave. Per ora questa partnership va ad unirsi a tutta una sfilza di rapporti poco chiari e abbastanza discutibili, come quelli di cui sopra che riguardavano la FIFA, ma a cui si possono aggiungere anche altre due (solo per citare le più in vista al momento) società straordinariamente famose, quale il Manchester City, di proprietà dell’Abu Dabhi United Group, e il Paris Saint Germain, della Qatar Investment Authority: club che hanno riversato sul mercato una quantità spaventosa e sregolata di soldi, senza quasi nessuna regolamentazione a limitarne le azioni. Ora come ora, riprendendo il discorso giustamente fatto dall’Independent, l’apatia morale la fa da padrona, e nessuno di noi si pone troppe domande in merito a tutto ciò, fin quando nelle nostre case arriva puntuale la partita che stavamo aspettando; di certo c’è che ormai il mondo del calcio sembra essere sempre più anestetizzato, pesantemente drogato da flussi di denaro e accordi commerciali di vario tipo che lo stanno forse portando ad un punto di non ritorno, a livello morale come a livello economico e di legislazione internazionale. Noi che siamo l’ultima ruota di questo pesantissimo carro, possiamo solo fare in modo di non lasciare che le notizie ci passino sopra la testa, ma rimanere informati e farci domande, anche se scomode: ad esempio se sulle maniche della nostra squadra del cuore compare all’improvviso il messaggio turistico di un paese controllato a vista dalla comunità internazionale in merito ad argomenti come la tortura, l’oppressione politica e culturale, l’anti-democraticità del suo governo e la possibile complicità del suo presidente totalitario con un genocidio del paese limitrofo.