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Samurai Blu - 侍青

La maglia del Giappone tra pattern della tradizione e influenze streetwear

Samurai Blu - 侍青  La maglia del Giappone tra pattern della tradizione e influenze streetwear

Nella tradizione giapponese il sashiko è un’antica tecnica di rammendo comparsa per la prima volta durante il Periodo Edo (1603-1868). Consisteva in una cucitura decorativa di rinforzo, adottata soprattutto dalle comunità povere rurali, per riparare gli abiti usurati attraverso una trapuntatura a pallini bianchi. Con il passare del tempo il sashiko è diventato un’elegante tecnica di decorazione ad ago, utilizzata anche per abbellire i tessuti che accompagnano il kimono e le tonache dei monaci buddisti rincorrendo i simboli della spiritualità religiosa. L’ultima frontiera del sashiko è la maglia che il Giappone indosserà durante i Mondiali 2018, targata adidas ed ispirata all’artigianato tessile nipponico. L’home kit presenta infatti una tonalità interamente blu navy impreziosita da un pattern a punti bianchi verticali che coprono l’intera lunghezza della maglia ad eccezione della maniche. La divisa è un richiamo al colore Kachi–iro, una particolare gradazione di blu simbolo di vittoria secondo la mitologia giapponese, e trae spunto dalle decorazioni in sashiko indossate dai samurai sotto le armature.

 

Blu Vittoria - 青い勝利

L’home kit del Giappone è anche uno delle poche divise adidas che non segue il filone della nostalgia, sebbene i rimandi all’antica tradizione vestiaria siano evidenti. In questo caso l’utilizzo del blu non è giustificato solo dal significato assunto nella cultura locale, ma è la prosecuzione di una precisa scelta stilistica che affonda la proprie radici nei primi prototipi di item sportswear datati 1930. In quell’anno si disputò a Tokyo la nona edizione dei Far Easter Championship Games (precursori degli attuali Asian Games) e per rappresentare il Giappone fu scelta la squadra di calcio dell’Università di Tokyo. Nella partita inaugurale i giocatori indossarono la maglia rappresentativa blu dell’università e la vittoria all’esordio suonò come un monito per mantenere quel colore anche nelle apparizioni successive. Da allora il blu ha sempre contraddistinto le divise della Nazionale di calcio, con un un’unica parentesi tra il 1988 e il 1992 nella quale avvenne il passaggio ai colori bianco e rosso.

 

Nel 1998 e la prima storica qualificazione al Mondiale in Francia, palcoscenico sul quale il Giappone sfoggiò un’uniforme generazionale visivo per via delle fiamme che avvolgevano le maniche. Il principale protagonista di quella maglia rimaneva comunque il blu, particolarmente apprezzato anche nella moda contemporanea nipponica, poi replicato anche nei successivi Mondiali cui la selezione ha preso parte. Le successive divise del Giappone non cambiarono molto con le uniche differenze dettate dalla presenza o meno di strisce sottili bianche sulle maniche e della bandiera posta sopra lo stemma della federazione, collocato all’altezza del cuore. Quella di quest’anno segna un punto di rottura per quanto riguarda il design puramente estetico: la sfumatura del blu è leggermente diversa, così come il font dei numeri scelto da adidas – squadrato e dallo stile spigoloso, ispirato all’alfabeto cirillico – mentre il logo della Japan Football Association (JFA) è stato riammodernato e reso meno araldico rispetto al passato.

 

La culla dello streetwear - ストリートウェアの揺りかご

L’elemento più suggestivo rimane la decorazione in stile sashiko, come a voler inserire in maniera armonica quel tocco retrò dentro il layout di una maglia diventata una delle più ricercate tra i collezionisti ma anche tra i brand di streetwear che hanno portato le maglie da calcio dentro il mondo della moda. Il Giappone è infatti considerato una dei mercati che ha cullato la nascita dello streetwear. Molto del merito va al poliedrico Hiroshi Fujiwara, che la scorsa settimana ha presentato a Firenze la sua collaborazione con Moncler. Designer, dj e musicista, restò folgorato dalla scena hip hop e street durante un viaggio a New York negli anni Ottanta. Tornato a Tokyo, decise di importare nella sua città natale quel mix esotico di apparel e generi musicali, combinando la scena skate, la musica underground e la moda americana in un’autentica bolla culturale che avvolse le strade della capitale nipponica.

La fondazione dell’etichetta di abbigliamento Goodenough nel 1990 e le successive collaborazioni con Louis Vuitton, Nike e Off-White hanno trasformato Tokyo in uno dei poli più futuristici e all’avanguardia nel panorama streetwear. L’ingresso di una nuova moda nella società giapponese ha contaminato anche il calcio, portando alla realizzazione di magliette a metà tra fantasie psichedeliche e la sobrietà tipica della tradizione sartoriale locale. La J League rappresenta infatti il laboratorio in cui le influenze extra calcistiche possono trovare l’apice della loro espressione, come dimostrato dall’assurda estetica delle divise di alcune squadre iscritte al massimo campionato giapponese. 

 

Hidetoshi Nakata, Holly Hutton e Tom Byer 

中田秀俊、ホリー・ハンター、トム・シティズ

La seconda maglia che il Giappone userà a Russia 2018 è  di un grigio chiaro tendente al bianco ed è adornata da tre rettangoli che partono dalla spalla sinistra e arrivano fino al petto, in omaggio alla divisa con cui il Giappone vinse il suo primo trofeo internazionale, la Dynasty Cup del 1992. Al di fuori dei confini asiatici, tuttavia, il percorso della Nazionale è sempre stato avaro di gioie e ricco di delusioni. I migliori risultati furono gli ottavi di finale raggiunti ai Mondiali del 2002, co-ospitato insieme alla Corea del Sud, e del 2010 in Sudafrica, mentre quattro anni fa l’eliminazione si materializzò ai gironi con appena un punto raccolto in tre partite. Eppure, nel Paese del Sol Levante, il calcio è uno degli sport più amati, diffusi e praticati. Il merito è soprattutto di due persone, una giapponese e l’altra nord-americana. Il primo a tracciare la via fu il fumettista Yōichi Takahashi, ideatore del manga Holly e Benji che raggiunse picchi di popolarità mai visti tali da rendere il calcio un fenomeno mainstream in grado di ispirare intere generazioni di ragazzini. Quello che colpì in particolare fu un modo nuovo di raccontare il calcio, analizzato più come un’opera d’arte – con una certa attenzione per l’estetica di personaggi, maglie e trame alquanto stravaganti – e non come una semplice trasposizione televisiva delle abitudinarie situazioni del gioco.

L’idea che anche nella vita reale si potesse tentare la scalata alla Coppa del Mondo attecchì in milioni di persone, contribuendo alla formazione e al lancio di alcuni dei migliori talenti nella storia calcistica nipponica come Hidetoshi Nakata e Shunsuke Nakamura, in seguito diventati autentici ambasciatori della scuola calcistica nipponica all’estero. Fu proprio Nakata a ritagliarsi un ruolo di primo piano nell’immaginario collettivo come icona di stile, dentro e fuori dal campo. Tutto cominciò da quegli stravaganti capelli color rosso bronzo con i quali si fece conoscere al pubblico e proseguì con prestazioni adamantine sui campi della Serie A. Appese le scarpe al chiodo, il suo impegno per la moda non si è fermato e lo ha reso una presenza fissa nelle sfilate di Dior e Louis Vuitton, tanto da essere eletto da L’Officiel Home China «una delle 40 icone più eleganti del secolo scorso».  

L’altro fautore della fortunata relazione del Giappone con il calcio fu un ex giocatore professionista di nome Tom Byer. Nel 2011 organizzò la visita di Zinedine Zidane presso un’accademia calcistica e per questo venne acclamato con lunghi cori dal pubblico in estasi che affollava le tribune dello stadio Ajinomoto di Tokyo. Quell’esibizione fu l’ultimo capitolo dell’impegno di Byer per importare il calcio in Giappone, sviluppatosi negli anni Novanta attraverso l’allestimento di una scuola calcio nella quale, prima ancora dell’allenamento fisico, ai bambini veniva insegnato il requisito fondamentale: il controllo di palla, semplice e pulito, al quale è subordinato l’intero sviluppo dell’azione. Oltre ai meriti strettamente tecnici riguardanti la formazione dei baby calciatori, Byer fu l’artefice della diffusione del calcio nei media locali. Nel 1998 condusse una rubrica all’interno di un programma per bambini e in seguito trovò spazio in un’importante rivista di fumetti. L’effetto fu eclatante: il calcio raggiunse picchi di interesse impressionanti e in costante crescita, tali da attestare il Giappone come una delle principali rappresentative dell’Asia orientale.

Dal 1998 la Nazionale ha sempre preso parte ai Mondiali. Il suo soprannome è rimasto il medesimo: quel Samurai Blu manifesto della fierezza con cui la nazione guarda al proprio passato dentro un presente sospeso tra il mito di Holly e Benji e la speranza che, prima o poi, anche nella realtà i risultati sul campo potranno avvicinarsi a quelli descritti sul piccolo schermo.