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L’impegnatissima vita di un perdigiorno a Los Angeles

24 ore per le strade della Città degli Angeli

L’impegnatissima vita di un perdigiorno a Los Angeles 24 ore per le strade della Città degli Angeli

Me lo chiedono spesso. «Come le passi le giornate a Los Angeles?» Bella domanda, come le passo? Medito tutto il giorno e faccio pilates con gli amici? O prendo il sole per tutto il giorno a Malibu? Oppure faccio jogging a Calabasas in attesa di essere invitato a un party sulle colline? Ma soprattutto: indosso solamente pantaloni della tuta e ciabatte Yeezy per ogni occasione? No. No a tutto. Ecco la risposta. Non vi ci siete nemmeno avvicinati. A differenza del resto della fauna di L.A., non solo non ho tempo o voglia di allenarmi, ma penso che Malibu sia così lontana che potrebbe trovarsi in Siberia per quello che mi riguarda e odio le tute da jogging. La verità è diversa: il tipico influencer perdigiorno di Los Angeles si sveglia tardi con una bocca impastata di tequila e rimorso per le follie della notte passata. Mentre fa colazione si accorge che ci sono macchie di vomito sulla sua borsa Cleo di Prada (la Re-Nylon della scorsa stagione si prenderà un giorno di riposo oggi) ma sono solo dettagli: la giornata deve andare avanti. Si lava i denti con il dentifrico di Kendall Jenner ed Heron Preston, nel frattempo si arrabatta a pensare a un video di TikTok per i suoi followers. La giornata è iniziata da venti minuti e già la fatica è sfiancante. 

Primo appuntamento del giorno di ogni influencer: me stesso. Sono il loro social media manager, dopo tutto. Ci becchiamo al Beverly Hills Hotel, più un’icona nazionale che un palazzo, e facciamo colazione con delle uova alla Benedict a cui manca solo la parola nella Fountain Coffee Room. Il bar però non serve alcolici. Ma a tutto si rimedia: ordiniamo un drink menu dalla Polo Lounge che è proprio a fianco del bar dell’albergo. La manager, Ruth, chiude un occhio. Dovrebbero farla santa.

Dopo colazione vado in bagno e incontro Kelly Osbourne con i suoi capelli viola nuovi fiammanti. Non dico una parola mentre allungo un ventone al garçon degli asciugamani e poi salto in macchina, diretto al centro commerciale di Beverly Hills. Ora, nessuna persona di buon gusto (vera o presunta tale) si farebbe vedere lì, nemmeno sotto minaccia di morte credo, tranne che si tratti di andare al The Webster lì accanto. I belli e i ricchi di LA ci vengono a comprare i loro vestiti: parcheggiare è un sogno perché il negozio ha un parcheggio separato da quello del centro commerciale e se non si presta troppa attenzione si riesce addirittura a non accorgersi dello squallore tutto intorno. 

Varcando la soglia si viene subito disarmati dal profumo che aleggia nel negozio – la stessa fragranza usata nella boutique originale a Miami. Do uno sguardo intorno: vedo per primi i colori squillanti del corner dedicato a Bottega Veneta, poi un notevole Mio Harutaka Rainbow Sapphire Connector Ring che diventa immediatamente la mia cosa preferita. 

Lo stylist, quasi di certo un losangelino purosangue a giudicare dal tono monotono ma caloroso con cui dice «Heeeeeeey», mi spiega rapidamente l’organizzazione della nuova merce: una distesa unisex di The Attico, Ambush e Marine Serre si apre davanti a me. Ryan Plao, il Michelangelo dei visual, ha disposto così bene l’eclettico inventario del The Webster che i miei nervi ottici sono letteralmente eccitati. È proprio lui a notare il mio apprezzamento per il profumo della boutique e mi convince a comprare la candela The Webster South Beach – candela che finirò per regalare alla mia assistente vegana il cui appartamento puzza di insalata al kale vecchia di tre giorni. Prima di andar via chiedo quanto costa l’anello di Mio Harutaka: soltanto 13.440 dollari. «Va in sconto fra qualche mese?», chiedo io. «No, gioia. Ma non è assolutamente carinissimo?» Sì, sì, assolutamente.

Inevitabilmente, serve un pit-stop al negozio di marijuana. Nessun losangelino può vivere senza svapare. Ma dato che ho deciso di consumare la mia cannabis in maniera più “illuminata” decido di dirigermi all’Agora Temple su Melrose Avenue dove Danny, una receptionst dall’aria estremamente distesa, mi accoglie con un sorriso radioso. Un commesso di quel negozio, che là dentro si chiama Guaritore, attende all’ingresso e mi domanda se è la mia prima volta nel negozio. «Certo che no, bambola. Io amo questo posto, vengo qua di continuo». Dopo un rapido controllo dell’ID si entra finalmente nel luna-park dell’erba di Los Angeles. Il Guaritore mi piomba davanti per precisare che il loro Sacramento (cioè l’erba) deve essere consumata per trovare la pace interiore e non solo per “strafarsi”. Io annuisco e sorrido. Mi viene un dubbio: ho fumato come un barbaro finora? Dovrei chiedergli se esiste un qualche corso serale per giungere all’illuminazione? In effetti (e per fortuna) il corso esiste e non è serale: lo fanno di domenica, dalle 14:22 alle 15:33 e si svolge sotto l’enfatica guida di una Guaritrice di nome Elisha. Il mantra di base è: «Trova la tua pace, proteggi il tuo spirito» e, fidatevi, ogni singolo abitante di L.A. sta cercando la propria pace, cercando di decifrare le stelle, fra segni lunari e ascendenti. Allora m’iscrivo senza indugio: esco dal negozio con una rinnovata volontà di consumare marijuana (o dovrei dire il Sacramento) in maniera più coscienziosa. 

Dopodiché il Guaritore mi chiede cosa preferisco: indica, sativa o ibrida? Io però dico: «Voglio comprare anche salvia da bruciare e cristalli» dopo averne notato una bella vetrina, al che il Guaritore risponde che non lì non si spendono soldi: si fanno solo donazioni che torneranno alla comunità sotto forma di cibo, abiti e beni essenziali assortiti. Che filantropi. Si continua ad annuire e sorridere, sempre più pronti a fumare il “sacramento” pre-rullato e riflettere sulle mie prossime opere di bene. I soldi della “donazione” vengono posati in una coppa dorata (come è tradizione a Los Angeles, accettano solo denaro sonante) e il resto viene posato in un’altra coppa. Il Guaritore mi saluta dicendo: «Ti auguro di trovare la pace». Ma io mi sto già affrettando fuori da quel posto, già determinato a tornarci e raccontargli di come ho intrapreso un percorso di illuminazione spirituale grazie a uno sciamano di Calabasas che impartisce i suoi insegnamenti su TikTok.

Presto la fame chimica si fa sentire. Si parcheggia a Rodeo Drive e ci si siede a pranzo alla Gucci Osteria da Massimo Bottura. Mentre si aspetta l’ingresso in fila (tantissima gente prenota qui) una ragazza con le labbra riempite ad arte di filler si abbassa la mascherina per parlare con un’amica – in parte per mostrare le sue labbra agli astanti, in parte per farsi capire dall’amica, che fra filler e mascherina non riesce a capire che dice. Interviene il maitre, tempestivo, a ricordarle di tenere la mascherina su finchè non si sarà accomodata. Da bravo americano, ho voglia di un burger grondante grasso ma voglio dimostrare di essere più fine del classico americano. Vivo a Los Angeles per l’amor di Dio! Ordino la parmigiana di melanzane. La mia amica, che è stata in Italia una volta e ora non riesce a smettere di parlarne, ordina un risotto al sapore di pizza. Entrambi, nel dubbio, ordiniamo patatine fritte come antipasto. Un abitante di L.A. consuma più patatine in un anno che l’intera popolazione del Regno Unito. La mia amica domanda al cameriere: «Mi dai della ranch?» Lui, compitissimo, schiva la domanda e offre un’alternativa più di classe: una maionese gourmet stagionata. Noi accettiamo di buon grado e, in effetti, non abbiamo mai sentito qualcuno descrivere la maionese in così preciso, allettante dettaglio. Il nome del piatto sul menù è “Patatine Fritte – Our Fries Don’t Speak French”. Non potremmo essere più d’accordo.

A questo punto il cameriere avvia un monologo molto tecnico sulal maniera in cui le melanzane della mia parmigiana saranno fritte Tempura-style. Ho già l’acquolina. La mia amica, dal canto suo, è comprensibilmente confusa dal suo risotto al sapore di pizza. Ma già alla prima alzata di sopracciglia il nostro cameriere chiarisce che il risotto è stato cucinato per avere lo stesso sapore di una pizza. Il cameriere conclude enunciando l’ordine in cui i nostri piatti arriveranno e perché, mentre noi continuiamo ad annuire: vengono i brividi a pensare a cosa succederebbe a non rispettare l’etichetta del ristorante davanti agli occhi severi dei resident di Beverly Hills. Il cibo, ovviamente, è buonissimo. Il risotto al sapore di pizza della mia amica quasi incredibile – le ho anche rubato un boccone mentre non stava guardando. Abbiamo forse dato tanto spettacolo, nell’apprezzare il sapore del cibo, che lo chef Mattia Agazzi abbandona la sua postazione in cucina e viene a salutarci. Appena arriva al nostro tavolo arrossisce ai nostri complimenti – specialmente quando gli diciamo che non vorremmo che il pranzo finisse mai.

Dopo aver pagato il conto, passeggiamo per Rodeo Drive. Una volta lì, infatti, nessuno sarebbe in grado di andarsene senza aver comprato qualcosa. Il pensiero di entrare nel negozio di Gucci mi paralizza: la fila di oltre dieci persone davanti alla porta è tutto ciò che mi serve. Tutta colpa del Covid. Allora decidiamo di andare da Lanvin, dove non ci sono file e possiamo dare un’occhiata a pezzi di gioielleria dai prezzi meno folli della media. Kiara e Mira, con un sonoro «Guarda un po’ chi c’è» usato al posto del tradizionale «Heeeeey» losangelino, ci salutano sorridendo e ci porgono bicchieri pieni di champagne. Nessuna delle due è di L.A. anche se entrambe l’hanno fatta diventare una nuova patria. 

L’hobby di Mira è provarsi gli abiti (e le stanno meglio che a molte modelle) mentre la specialità di Kiara sono storielle e aneddoti divertenti, di cui ha una riserva  infinita.  Dopo aver fatto un salto nel bagno (dove, in ossequio agli algoritmi, produco il secondo video TikTok della giornata) chiacchieriamo di qualche fatto di cronaca e ci promettiamo invano di vederci a pranzo, un giorno o l’altro. Guardo l’orologio. Non vedo l’ora di andarmene da Beverly Hills adesso – per riprendermi serve un giro in auto su Sunset Boulevard, a Hollywood. Ma prima di uscire gli occhi mi cadono su una t-shirt, la più soffice e morbida che abbia mai visto. Ne compro due.

Mentre il sole tramonta sulle stelle di Hollywood, l’hypebeast che è in me (ovvero, un hypebeast con una malsana fame di dolci) vuole andare da Kith Treats per la  sua dose giornaliera di gelato e sneaker. Io, reso più noncurante del lecito dalla canna di poco fa (pace interiore, sì) arrivo due minuti prima della chiusura e la security mi ferma alla porta – non accettano più ordini. Va bene così. Gli dico, però, che ho passato l’ultima ora e mezza per arrivare fino a lì e farmi un gelato (vivo a trenta minuti di distanza) e che se potessi prenderne anche solo una coppetta la mia giornata sarebbe perfetta. Lo convinco: ordino il The Flatwithe, il gelato di Virgil Abloh, che vale tutta la pena delle mie bugie con un delizioso pezzi di cereali tostati alla cannella sparsi sopra. Decido di tornare a casa ordinando un UberXL – ho bisogno di un’auto spaziosa per rilassarmi dopo questa giornata pigrissima, fitta d’impegni. Saluto l’autista distrattamente e mi metto gli AirPod nelle orecchie – anche se non sto ascoltando nessuna musica. Mi metto a leggere la sceneggiatura dell’episodio di Euphoria in cui prego ogni notte di poter recitare. Il casting è aperto al pubblico e mezza Los Angeles vuole interpretare “Jamieson, l’outsider nero, non-binario che potrebbe o meno avere problemi di droga”. Mentre scende la sera, il traffico scorre sonnolento come un fiume. Proprio come piace a me.