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La moda dentro Baby

Come la serie Netflix ha provato a raccontare la vita stilistica della gioventù romana

La moda dentro Baby Come la serie Netflix ha provato a raccontare la vita stilistica della gioventù romana

Raccontare Roma è da sempre uno dei desideri più grandi del cinema e della tv italiana, continuamente alla ricerca del modo migliore per ritrarre quel microcosmo tanto diverso quanto sempre uguale a se stesso. Baby, la serie Netflix arrivata da poco alla terza e ultima stagione, ha rappresentato per molti versi uno spartiacque non solo per la rappresentazione di Roma e dei suoi cittadini, ma soprattutto per quella dei giovani romani e del loro insieme di vizi e virtù stilistiche.

Se gli adolescenti delle serie tv italiane sono sempre sembrati lontani anni luce dalla realtà, Ludovica, Chiara, Brando e il resto dei personaggi della serie sembrano per molti versi dei perfetti estratti della giovane società romana, quel mix di moda ricercata e capi stropicciati presi dalla cesta dei panni sporchi, lo stile di chi non vuole apparire perché è. Un discorso diverso andrebbe fatto per le due protagoniste femminili interpretate da Alice Pagani e Benedetta Porcaroli, entrambe legate a due importanti brand di moda (Armani e Gucci) e per questo sempre lontane dai canoni estetici di molti degli altri personaggi, sempre perfette nei loro outfit imperfetti ma palesemente studiati da qualcuno che non è un adolescente romano.

Il vero punto di contatto tra lo stile di Ludovica e Chiara con quello del resto del cast è però il modo in cui questo viene utilizzato per caratterizzare e rappresentare in modo credibile ogni singolo personaggio, abbinando tagli e stili in base al carattere e all'indole del giovane di turno. Se le due star della serie sembrano appunto due alieni, il Damiano di Riccardo Mandolini adotta spesso uno stile già visto in passato in un'altra serie Netflix, Suburra. Così come lo Spadino di Giacomo Ferrara, anche il protagonista di Baby sceglie stampe in stile Burlon su felpe e giacche, alternandole però a bomber The North Face (nonostante il logo sia goffamente coperto) e maglia tie-dye Huf. Capiamo quindi fin da subito che Damiano è il personaggio tenebroso e pericoloso, così come Fabio di Brando Pacitto esprire il suo carattere "da bravo ragazzo" con una serie di capi Fred Perry, maglioni e giacche che potreste trovare in una vetrina di Doppelgänger. Rispetto a molti competitor Baby non ha paura di etichettare i suoi protagonisti attraverso brand e styling definiti, inserendo spesso modelli iconici e facilmente riconoscibili pur senza loghi, come la giacca County of Milan di Fiore o la borsa Stella Mccartney di Ophelia. In alcuni casi però questa tendenza della serie si trasforma comunque in una caratterizzazione fin troppo stereotipata in cui il personaggio appartenente a un ambiente sociale indossa una divisa, come nel caso di Anna Lou Castoldi e della sua Aurora.

Sono comunque enormi passi avanti rispetto a quanto visto in un altro prodotto Netflix come Summertime, in cui l'anonimato segnava sovrano, o SKAM. Quello che però sembra continuare a mancare alle nostre produzioni è la capacità di allinearsi con stili e tendenze dei giovani, rimanendo bravi nella teoria ma meno nella pratica. Un paragone obbligatorio è quello con We Are Who We Are, la serie diretta da Luca Guadagnino co-prodotta da HBO e Sky Italia in onda proprio in questi giorni; uno spaccato di un gruppo di giovani americani in una base militare italiana in cui la ricerca delle credibilità stilistica diventa un punto di forza della serie, capace di vestire i suoi protagonisti con stampe animalier, capi workwear Carhartt e semplici pezzi vintage dando credibilità e appeal ai personaggi.

Il passo avanti segnato da Baby è di quelli epocali per le produzioni italiane, sempre in difficoltà nel raccontare spaccati giovanili che non siano usciti dalla fantasia di un genitore preoccupato. Diventa però necessario nel momento attuale, in cui le produzioni cinematografiche e televisive in giro per il mondo sono diventate un mezzo di comunicazione della Gen Z, per creare piattaforme credibili per raccontare le vite e le difficoltà dei giovani. Romani e non.