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Perché il coronavirus viene rappresentato con questa immagine?

Tutti i modi in cui grafica e scienza ci hanno fatto vedere ciò che è invisibile

Perché il coronavirus viene rappresentato con questa immagine? Tutti i modi in cui grafica e scienza ci hanno fatto vedere ciò che è invisibile

Durante l’intero corso della quarantena, media e telegiornali hanno rappresentato il coronavirus con un’immagine ormai famosa: un globo grigio, punteggiato di giallo con minacciose punte ritorte e rosse. Ma quest’immagine, anche se forse è la più rappresentativa del Covid-19, non è la più vicina alla realtà. Si tratta infatti di un rendering grafico creato da Alissa Eckert e Dan Higgins, due illustratori del Center for Disease Control o CDC  – il principale organo di controllo della sanità pubblica degli Stati Uniti. Ovviamente quest’immagine ormai iconica non è frutto della fantasia: i due illustratori l’hanno generata a partire dalle rappresentazioni grafiche delle proteine racchiuse nel RCSB Protein Data Bank, un database ad accesso libero che raccoglie i rendering grafici delle diverse strutture proteiche. Una volta raccolte le strutture delle tre componenti base del virus (membrana, involucro e virioni, che sarebbero le “punte” rosse)il programma Autodesk 3ds Max ha fatto il resto. Ma i colori con il quale rappresentiamo il virus, il suo aspetto grigiastro e ruvido che ricorda una pietra o il minaccioso rosso dei virioni, sono frutto dell’intuito di Eckert e Higgins.

Ciò che c’è di curioso nella vicenda è che, a rigor di logica, non è possibile “vedere” un virus. Lo si può fotografare con il microscopio elettronico, ma anche quella rappresentazione è più utile a specialisti e dottori che non al pubblico. Il fascio di elettroni che attraversa i campioni e fissa la loro immagine su una lastra, ingrandita milioni di volte, rappresenta fedelmente il virus ma non è rappresentativa del virus: ciò che si vede non è altro che uno sfondo di bolle grigiastre con piccoli globi che vagano intorno. Come Eckert ha detto al The New York Times, infatti, la sua missione in quanto illustratrice medica è dare “identità” ai virus. Una missione che si trova sulla linea di confine fra la scienza e l’arte – intesa come rappresentazione mirata ad ottenere un effetto psicologico su chi la guarda. I virioni del coronavirus, infatti, non sono certo rossi, e anche se lo fossero nessuno potrebbe dimostrarlo per testimonianza diretta. La Eckert li ha colorati di rosso per attirare l’attenzione del pubblico, per creare un senso di pericolo. La foto del virus ci aiuta a dargli un’identità precisa, a “crearlo” nella nostra mente.

Chiunque abbia seguito il costante flusso di notizie e annunci dato dai media o, ancora peggio, abbia letto uno degli innumerevoli post di Facebook o Instagram in cui gli utenti social, improvvisatisi poeti e scrittori, hanno offerto la propria, non richiesta opinione sullo stato attuale dell’emergenza sanitaria, avrà notato un certo tipo di retorica connessa al virus: quella della “guerra” che si “combatte” contro un “nemico invisibile”. Questa retorica, come le rappresentazioni grafiche del virus, risponde al bisogno di dare una forma a qualcosa che è invisibile, creare una contrapposizione fra l’umanità e il suo invasore. Lo stesso tipo di retorica che ha provato a trasformare la narrativa della pandemia in un  “insegnamento”  che la natura vuole dare al mondo. É qualcosa di errato, ma necessario. Il virus è un organismo privo di pensiero che si propaga alla cieca, secondo lo stesso imperativo biologico che spinge ogni essere vivente, dalle piante agli animali, a riprodursi continuamente. Non ha una volontà, non è un “nemico”, ma per reagire alla sua apparizione noi umani dobbiamo rappresentarlo, creare una narrativa – e la rappresentazione grafica del Covid-19 è forse la parte più importante di quella narrativa, perché ci consente di stabilire chi siamo noi e chi è “lui”.

Detto ciò, il rendering grafico di Eckert e Higgins non è l’unica rappresentazione del Covid-19 che è stata creata.  Un biologo di nome David S. Goodsell ne ha disegnato una versione meno “digitalizzata” e quasi più simile a un inquietante acquerello in stile Liberty. L’immagine rappresenta il virus all’interno del tessuto polmonare umano, dipingendolo di viola per farlo contrastare contro lo sfondo verdastro  che invece rappresenta il muco presente all’interno dei polmoni. Stranamente, questa immagine si avvicina molto di più alla fotografia del virus fatta dal microscopio elettronico. Una via di mezzo fra la rappresentazione accurata ma “soft” di Goodsell e l’iconica immagina di Eckart e Higgins sono i rendering grafici del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, che riprendono più da vicino l’immagine esatta del virus, e la esaltano tingendola di colori forti. 

Uscendo dal mondo della medicina e degli istituti di ricerca scientifica, le rappresentazioni più quotidiane che la popolazione generale si fa del virus si muovono attraverso le emoji. Secondo un report di Emojipedia sulle emoji più utilizzate di Twitter, si nota un fortissimo aumento di quella chiamata “Microbe” per parlare di coronavirus. Si tratta anche in questo caso di una rappresentazione non del tutto corretta – è appunto un microbo e non un virus – anche se la versione iOS dell’emoji è una buona approssimazione all’effettivo aspetto del virus. Ma dopo tutto, i social media e WhatsApp privati non sono certo canali di informazione scientifica né andrebbero ritenuti tali anche se ciascuna condivisione, ciascuna immagine rafforza l’identità che attribuiamo al virus nella nostra mente e diminuisce la nostra ansia, ci dà la certezza che ciò che stiamo affrontando non è astratto ma, al contrario, tangibile, fisico e gestibile. Ciò che è certo è che quando questo momento sarà passato e il Covid-19 sarà solo un ricordo, l’immagine di Eckert e Higgins resterà potente perché diventerà il simbolo della prima drammatica esperienza collettiva del mondo globalizzato.