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Orientalismo e astronavi nello show di Dior tra le piramidi

Kim Jones rilegge l’ispirazione egiziana e imbastisce uno degli show più spettacolari dell’anno

Orientalismo e astronavi nello show di Dior tra le piramidi  Kim Jones rilegge l’ispirazione egiziana e imbastisce uno degli show più spettacolari dell’anno
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum

Esiste una polemica in corso, nel mezzo della stampa di moda, sulla liceità degli show esotici organizzati in giro per il mondo dai grandi brand. Se durante le regolari fashion week metà dell’industria della moda prende un aereo per Milano o Parigi, per vedere le collezioni Pre-Fall e Cruise interi caravanserragli fatti di editor, buyer, celebrity e influencer devono volare da centinaia di diversi punti del globo, con grande dispendio di soldi oltre che impiego di carburante e altre risorse e dunque altissime emissioni per vedere, sostanzialmente, una collezione di abiti di cui forse solo la metà sarà effettivamente prodotta. Qualcuno ha detto questo proprio a proposito di questo dicembre che vedrà i glitterati marciare sul Cairo per Dior, a Dakar per Chanel, a Los Angeles per Celine, a St. Mortiz per Pucci e Armani e a Parigi per Jacquemus. E se in effetti la moda ha bisogno di spettacolo e grandeur (chi ricorda quando Jacquemus fece volare centinaia di persone alle Hawaii per uno show in spiaggia o di qualunque show Karl Lagerfeld organizzò per Chanel?) è anche vero che in tempi di responsabilità sociale il bisogno di portare a zero sprechi ed emissioni cozzi con quello di generare interazioni, stimolare l’attenzione e, in definitiva, creare interesse per un evento che, se non includesse per gli invitati un soggiorno a cinque stelle al Cairo con una pioggia di regali e la vicinanza delle celebrità, forse non catturerebbe tutta questa attenzione dato che, ricordiamolo, alla fine si parla di vestiti che solo lo 0,01% del pubblico alla fine potrà davvero permettersi. Sia come sia, ci sono momenti in cui le diverse ispirazioni alla base di un certo show o di una certa collezione indovinano, se non altro, un’estetica, uno scenario e lo scorso show FW23 di Dior al Cairo lo ha fatto.

Sarebbe stato facile per Kim Jones pescare nel calderone dell’estetica egizia come fece Galliano per lo show Couture 2004 di Dior, eppure il vibe che è stato esplorato qui è quello, più sottile e fantascientifico, di film come Stargate, Immortal Ad Vitam, Il Quinto Elemento e, in misura minore, anche Blade Runner le cui scene abbondavano di piramidi futuristiche, simbolismi egizi, colonnati non diversi da quelli che si incontrano nella Valle dei Re. Seguendo un metodo già implementato da Jones nelle ultime due collezioni del brand, i connotati di alcuni modelli di couture di decenni fa vengono tradotti in menswear moderno: l’abito Junon e l’abito Bonne Fortune sono due dei rimandi più palesi, non mancano però strizzate d’occhio a certe silhouette di Marc Bohan e Yves Saint Laurent oltre che citazioni ai lavori di Maria Grazia Chiuri. Indicativo rimane, considerato che alla fine dei conti quello di Dior è un lusso commerciale che si materializza in un prodotto iper-elevato, come il menswear di questa stagione sposi senza indugio certe suggestioni genderless sotto forma di gonne e grembiuli plissè che citano i costumi pieghettati degli Antichi Egizi mentre a suggestioni desertiche e nomadiche che passano per colori, silhouette e anche accessori che paiono usciti da Dune (sia quello di Jodorowsky, mai realizzato, che quelli di Lynch e Villeneuve) si mescolano a motivi astronomici e simbolismi numerici di cui tanto gli antichi faraoni che Christian Dior erano ossessionati. I motivi Cannage e Diamond, poi, si trasformano in nuovi apparati decorativi per scarpe o top che includono tecniche come la pannellatura in neoprene ad alta frequenza e lo stampaggio a iniezione alle finiture in metallo anodizzato. Compiendo un ideale passaggio dalla terra alle stelle, poi, i look della collezione iniziano con i colori della sabbia e si concludono con il nero della notte con l’ultimo look che è la stampa ad alta definizione di una lontana galassia ottenuta da un telescopio NASA.

Dopo aver discusso dell’estetica e delle ispirazioni dello show (spettacolare è stata anche la colonna sonora di Max Richter) serve tornare per un attimo al discorso degli show itineranti. Vero è che trasportare centinaia di persone da una parte all’altra del mondo per una sfilata non rappresenta una scelta molto eco-conscious, non di meno bisogna sottolineare come questi show siano stati con ogni probabilità fortemente voluti dal Ministero del Turismo egizio che solo l’anno scorso, in occasione del trasporto delle più importanti mummie e reperti dal vecchio Museo del Cairo al nuovo Museo Nazionale della Civilità Egizia, organizzando una parata da diversi milioni di dollari con migliaia di figuranti in costume. Proprio nel Grand Egyptian Museum o Museo di Giza, che deve aprire al pubblico tra un mese, sempre Dior ha presentato la capsule collaborativa con Tremaine Emory di Denim Tears, quasi a stringere ancora di più il legame tra moda, jet-set e il totale rinnovamento di tutte le strutture turistiche con cui il paese intende attirare il pubblico da tutto il mondo, facendo dimenticare le numerosissime violazioni dei diritti umani che il regime di Abdel Fatah al-Sisi commette ancora oggi e che i delegati del COP27, tenutosi a Sharm el-Sheikh in novembre, non hanno potuto fare a meno di notare. Ora, l’Egitto è una delle mete turistiche preferite dal ceto abbiente dai tempi dell’Antica Roma, e ancora di più dai tempi del colonialismo inglese – una fama proseguita fino ai primi 2000 nonostante la non facile situazione politica del paese negli ultimi decenni che però, molti anni fa, sembrava essere stata perduta con gli eventi della Primavera Araba. È dunque impossibile non domandarsi quanto la politica sia entrata in collisione con la moda in quest’occasione – non diversamente da quanto successo in Qatar con i numerosi eventi di moda ad altissimo profilo organizzati a ridosso dei mondiali di calcio.  

La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum
La capsule Dior Tears presentata al Grand Egyptian Museum

E se scegliere di gettare un riflettore sul paese non equivale a collaborare con il regime autoritario in essere dal 2014, dato che a prescindere da tutto la cultura e i monumenti dell’Antico Egitto sono un patrimonio dell’umanità intera, il faraonico show di Dior (la battuta è voluta, ovviamente) si trova in una curiosa congiuntura di estetica superlativa ed etica mercantile, per così dire, che restituisce il riflesso della moda di oggi, insieme onnipotente, sovradimensionata, in cerca di attenzioni e prestigio culturale e ricca tanto di bellezza quanto di contraddizioni ma soprattutto desiderosa di catturare gli sguardi di quella clientela araba che, nella generale contrazione dei consumi che si prevede per il 2023, sarà tra  le uniche a continuare a spendere con liberalità nel lusso. Forse sarebbe bene, comunque, prendere lo spettacolo per il semplice spettacolo, dopo tutto al di fuori dell’avant-garde le sfilate di moda possono benissimo essere dei no brainer. A volte, per parafrasare Freud, una piramide è solo una piramide.