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Il costo dell’indipendenza

Sfide e compromessi dei brand indipendenti

Il costo dell’indipendenza Sfide e compromessi dei brand indipendenti

Inflazione crescente, uno scenario geopolitico teso e una pandemia che per il mercato asiatico, un tempo trainante, è ancora realtà: la fashion industry sta vivendo cambiamenti epocali, un ribaltamento che dall’esterno assume la forma di una creatività spesso stanca, dall’interno si traduce in direttori artistici che si dimettono, nuovi CEO e strategie di marketing frettolose. Ma se i grandi gruppi sono i protagonisti indiscussi di un’industria in continua evoluzione, a pagare lo scotto sono i brand indipendenti, migliaia e migliaia di etichette che competono furiosamente per ritagliarsi uno spazio nella scena. Da Band of Outsiders a Raf Simons, per necessità o per scelta molti si vedono costretti a mollare la presa di fronte al progetto, spesso utopico, di tradurre la propria visione in realtà commerciale, alimentati dal falso mito che a fare grande un brand bastino le idee. Secondo una stima di BoF, nel 2019 i gruppi LVMH, Kering e Richemont, insieme ai "giganti indipendenti" Hermès e Chanel, controllavano circa il 40% del mercato dei beni di lusso, pari a 281 miliardi di euro.

Dopo la pandemia, gli stessi gruppi (in particolare LVMH e Kering) sono diventati ancor più dominanti, man mano che i marchi indipendenti venivano spazzati via. A causa della diminuzione del valore percepito (e reale) di molti brand, pochi investitori sono interessati a salvarli, mentre un numero significativo di maison è già sostenuto da società di private equity o venture capital, incentivato a crescere ad ogni costo per poter essere venduto ad un gruppo più grande. Le acquisizioni, già poche e rare, fioccano a prezzi stracciati. È evidente che nel mondo della moda, l’indipendenza si paghi a caro prezzo, e che non sia sempre compatibile con i tempi e i capricci della creatività.

Da un lato ci sono i ritmi e i costi incalzanti, problemi contingenti che riguardano la produzione, dall’altra c’è la necessità di un’identità stilistica chiara, in grado di emergere in un mondo in cui tutto sembra già essere stato detto. E, sebbene i social media non siano assolutamente l'essenza della storia di un marchio, scattare in prima linea nella scena con una campagna virale e l'approvazione di grandi nomi può rivelarsi vincente, anche se l'hype non dura per sempre e non ha assolutamente nulla a che fare con la longevità di un brand: basta guardare Been Trill. Perché se il punto di partenza sono sicuramente le idee, è anche vero che nella società dello scrolling compulsivo il ciclo vitale della creatività si fa sempre più breve, cedendo il passo a progetti blandi o trend riciclati dal passato. Ad oggi, il vero costo dell’indipendenza è il compromesso, la via di mezzo tra la coerenza verso se stessi e la capacità di parlare al grande pubblico.

Un compromesso che per Acne Studios, fondato nel 1996 da Jonny Johansson in Svezia, si trasforma nella decisione di affidare la propria immagine nella campagna FW22 ad una delle star più influenti del momento, Rosalia, sfruttando la stessa celebrity culture che Margiela, padre degli indipendenti, rifiutava a tutti costi, tanto da coprire i volti dei modelli con maschere e ricami, come se l’identità del singolo dovesse scomparire di fronte alla forza espressiva degli abiti. Per Anne Demualemeester invece, brand fondato nella 1992 dall’omonima stilista belga e acquisita lo scorso anno da Dreamers Factory, il compromesso non sta solo nell'acquisizione, ma anche nell’associare la propria immagine - gotica, minimale, volutamente di nicchia - ad uno stilista dall'immaginario sexy e chiassoso come Ludovic De Saint Sernin.

Per altri il compresso ha invece a che fare con il tempo. Jerry Lorenzo, stilista di Fear of God con sede a Los Angeles, non rilascia collezioni ready-to-wear da due anni, preferendo finanziare la sua attività indipendente fondata nel 2013 con la linea di prodotti Essentials e tramite collaborazioni. Mentre gli altri brand rilasciano sei o più collezioni all'anno, Lorenzo ha usato la sua flessibilità autoimposta, collaborando con una fabbrica di Los Angeles per creare l'esatta finitura che desiderava sul denim giapponese cimosato e stabilendo relazioni con fabbriche italiane per introdurre nel suo repertorio il suiting e tessuti e maglieria di qualità superiore.

Per Amy Smilovic, l’indipendenza si traduce non solo in collezioni più piccole ma anche in pre-ordine, un modo per gestire meglio le scorte ottenendo un impegno anticipato da parte del cliente. Per Enfant Riches Deprimés è proprio la scarsità la chiave del successo: la capacità di sottrarsi ai radar affidandosi a pochi fidati retailer e ad uno stock limitatissimo, ha portato il brand di Henri Alexander Levy a diventare l’oggetto del desiderio per gli appassionati della moda, con capi rivenduti al doppio del prezzo di listino sui siti secondhand di tutto il mondo.

Per altri ancora la propria immagine è un compromesso sufficiente, come nel caso della fitta schiera di "stilisti influencer", disprezzati dagli intellettuali della moda per la presunta tendenza a mettere avanti la propria estetica rispetto ai capi, venendo meno a quel compromesso di anonimato e morigeratezza che aveva caratterizzato i grandi creativi degli anni '90. Giorgia Tordini e Gilda Ambrosio per The Attico, Simon Porte per Jacquemus, Ashley e Mary-Kate Olsen per The Row, figli di una nuova generazione di trendsetter che hanno saputo utilizzare il potere dei media per affermare la propria indipendenza, economica e stilistica, piuttosto che essere calpestati dalla velocità dei social, creando un modello di brand inedito e vincente, sulla scia di quella maestria nell'amplificare la propria immagine anticipata già da figure come Yves Saint Laurent quando decise di posare nudo per la campagna di Opium, facendo schizzare le vendite della fragranza alle stelle.

Secondo le stime, Ashley e Mary-Kate Olsen hanno superato i 100 milioni di dollari di vendite annuali grazie a una distribuzione globale capillare, diventando uno dei pochi marchi di lusso al di fuori dei grandi gruppi. Anche Jacquemus ha superato i 100 milioni di fatturato nel 2021, ma punta al raddoppio entro la fine del 2022, diventando, come precisa Bof, “il brand francese di maggiore successo, al suo debutto, in oltre un decennio”. Per questi individui il costo del successo è spesso la celebrità, quella fama un po' morbosa che rende il culto attorno agli stilisti paragonabile a quello riservato ai divi di Hollywood, simboleggiato dal matrimonio di Simon Porte Jacquemus e Marco Maestri, accolto dalle testate di gossip come l'ultimo evento mondano. C'è chi paga con il tempo, chi cedendo al volto di qualche celebrity risonante, chi con il proprio privato, ma l'indipendenza, ad oggi, ha sempre un prezzo.