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La moda ai tempi del complottismo

E le derive mediatiche del caso Balenciaga

La moda ai tempi del complottismo  E le derive mediatiche del caso Balenciaga

«Da oggi in poi chiunque indossi Balenciaga appoggia la pedopornofilia e dovrebbe essere cancellato» è solo uno dei tanti tweet che si possono leggere online in questi giorni, a seguito di una serie di scelte infelici da parte di uno dei brand più famosi e sovraesposti al mondo. La teoria del complotto nata nell’ultima settimana ha portato centinaia di migliaia di utenti online a credere che un marchio, parte di uno dei più grandi conglomerati della moda, sostenga attivamente il traffico di minori. Utenti che nel caso della frase citata poco fa hanno il nome di Layah Heilpern, esperta di bitcoin da 70mila follower su Instagram ma anche accanita divoratrice di video di Andrew Tate che in altri suoi tweet ci dice che «la più grande minaccia all’umanità è l’agenda satanica woke», oltre a parlare di Elon Musk come della «più grande cosa mai capitata alla libertà di parola». Heilpern è però solo uno dei tanti nomi protagonisti di una vicenda che, volendo essere ottimisti, tra qualche anno ricorderemo con il sorriso e lo sconcerto che proviamo oggi parlando del Pizza Gate, lo scandalo che nel 2016 voleva una pizzeria di Washington DC al centro di un gigantesco traffico di minori, ma che oggi ci racconta come i social network, la disinformazione e qualche preconcetto di troppo possano creare una miscela esplosiva. Distruttiva tanto per un brand quanto per l’intelletto collettivo. 

Scorrendo su TikTok l'hashtag #Balenciaga conta più di 5.1 miliardi di video, mentre il più specifico #BalenciagaChildren ne ha 7.6 milioni, clip di persone che bruciano, gettano, tagliano capi del brand. Nonostante il complotto sia nato e prosperato da un tweet di June Nicole Lapine, youtuber esperta di gossip e negazionista dell’11 Settembre, è su TikTok che ha trovato la sua massima esposizione in un calderone di informazioni confuse e tentativi di cavalcare il trend per ottenere un minimo di clout. Lo stesso meccanismo che in queste ore sta prendendo di mira un’atra figura chiave del mondo della moda, Lotta Volkova, diventata nel tritacarne dei social “la designer di Balenciaga” e complice di qualcosa che non esiste, costruito su informazioni sommarie e giudizi affrettati partoriti da chi è convinto che un tweet o un TikTok siano automaticamente fonte di una verità nascosta, cercata in maniera quasi ossessiva in quella che, leggendo molti commenti, sembra essere la lotta tra due schieramenti netti: noi e loro, le elité e il popolo, qui nella veste di giudice, giuria e carnefice verso designer e stylist di cui fino a pochi minuti fa ignorava l’esistenza. «Chi c’è dietro Balenciaga?» chiedono su TikTok. «Kim Kardashian e Nicole Kidman» risponde qualcun altro dando prova della superficialità su cui si basa l’intera questione. 

La moda si è sempre autoregolata nel gestire e in alcuni casi insabbiare i propri scandali, basti pensare ritorno sulle scene di Alexander Wang, uscito indenne dalle accuse di molestie e violenze sessuali, passando per l’antisemitismo di John Galliano e la grassofobia di Karl Lagerfeld, a cui verrà dedicato il prossimo Met Gala. Due pesi, due misure. Ma a fare la differenza in questo caso è stato il campo di battaglia; non le pagine di una rivista di moda o il parere di un fashion insider, ma le lande senza legge dei social, dove tutti hanno voce e una storia assume la forma che l'utente gli vuole dare. Dai social si è poi passati alla televisione: nello stesso paese in cui Jeffrey Epstein - magnate, truffatore, molestatore, pedofilo e all’apice di un traffico di prostituzione minorile nonché per lungo tempo collaboratore di Les Waxner- cenava indisturbato allo stesso tavolo di Donald Trump, una rete apertamente filotrumpiana come Fox News ha deciso di riportare la notizia in modo fuorviante e sbagliato, sottolineando le parole “pedophile” e “child abuse” in un ragionamento talmente irrazionale da sembrare uno sketch del Saturday Night Live. Il caso mediatico ha preso evidentemente derive politiche, alimentando quella fetta di pubblico che vive si cospirazioni e teorie del complotto, dai no vax ai negazionisti, già da quando Candace Owens e Carlson Tucker, entrambi dichiaratamente pro-Trump e vicini all'ala repubblicana americana, si sono schierate contro Balenciaga dando adito alle accuse in quello che, come commenta qualcuno online, «it’s not about child safety, it never has been, it’s always been about spreading a different message under the guise of protecting children.»

A difendere il brand c'è stato anche il genitore di uno dei bambini rappresentati della campagna, che ha definito l'esperienza "an enjoyable day out", ma in un marasma di commenti d'odio, lo statement è passato del tutto inosservato. A peggiorare tutto c’è stata poi l’incapacità di molti di tutelare una posizione. Se da un lato c'è la colpa del brand (la disattenzione e l’errore ci sono stati ed è doveroso sottolinearlo) dall’altro qualcuno, lo stesso che in passato ha messo sotto il tappeto scandali veri con accuse reali appoggiando apertamente l'accusato, ha preferito defilarsi, raggomitolato in un angolo per paura di perdere il proprio clout personale. Questo, probabilmente, non li rende tanto diversi da chi oggi porta avanti teorie strampalate e scrive “dig deeper” convinto di essere in odore di Pulitzer. Il problema forse non riguarda Balenciaga, che sicuramente aveva il dovere di gestire i contenuti in una maniera migliore e più consapevole, ma tocca l’intero sistema e il tempo che ognuno di noi ha a disposizione per gestire una pubblicazione. È il riflesso naturale della fretta irrazionale che governa i social, la mancanza di tempo per fermarsi a ragionare prima di esprimere un giudizio e di spargere odio. «Quando, però, si gioca costantemente sul terreno di argomenti divisivi per emergere nei tempi dei social» commenta Giuliana Matarrese su l’Linkiesta «anche l’orsetto con il choker diventa pietra dello scandalo. Laddove, invece, si trattava di incauto cattivo gusto e di una generalizzata inerzia che trovano faticoso porsi un dubbio. Laddove, invece, in questo mercato drogato dalla necessità di rilevanza e povero (nella maggior parte dei casi) di una reale sostanza, sarebbe necessario evitare i "perché no?" (...) e chiedersi semplicemente "perché?" una volta in più.»