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La storia di Erik Brunetti è costellata di contraddizioni: è considerato univocamente come il padre dello streetwear sebbene odi lo streetwear, mentre FUCT è visto come il brand più rappresentativo della cultura underground degli anni ‘90 sebbene non abbia mai avuto neanche l’aspirazione di diventare un brand. Sull’etichetta interna di una tee Star and Stripes si legge “steal this garment”, su un’altra compare la foto segnaletica dell’eroina punk Wendy O. Williams, su un’altra ancora Saddam Hussein, in un mix di ribellione, irriverenza, e anarchia. Concepito nel 1991 da Brunetti e Natas Kaupad a Venice Beach, FUCT è legato alle radici DIY, ai graffiti, allo skateboard, al periodo di massima fioritura delle subculture giovanili. Elementi e icone della cultura pop si accostano a suggestioni antigovernative e antireligiose, compresa la parodia di loghi famosi e la presenza di messaggi sovversivi nascosti. «FUCT è molto punk, in mancanza di una parola migliore, fa riflettere la gente» - mi racconta Brunetti quando lo incontro in Spazio Maiocchi all’apertura della sua mostra personale, Oval Parody. Un'esibizione che presenta un nuovo corpo di lavori ispirati alla parodia del logo Ford, completata da un cartellone pubblicitario, da un libro d'artista edito da KALEIDOSCOPE e da una capsule collection creata da FUCT in collaborazione con Slam Jam. Il brand nasce senza un business plan, senza vestiti o senza che ce ne fossero abbastanza, da un’idea e da un nome che evoca quella dissidenza peculiare dell’era pre-internet, prima che la dissidenza stessa venisse risucchiata dalla frammentarietà pixellata del post-moderno. Il nome, omofono con la parola probabilmente più offensiva del vocabolario inglese, è stato protagonista di una decennale trafila legale che si è protratta fino al 2019, ma non venne scelto in principio con lo scopo di indignare, quanto piuttosto “creare confusione”, dirà più volte Brunetti in seguito. Quando gli chiedo se lo rifarebbe, scegliere un nome per il suo brand che gli è costato trent’anni di tribunali, non esita un attimo: «Cambiare il nome è una cosa che non farei mai, né mi è mai passato per la testa. Quel nome è stato l'essenza dell'identità del marchio.»

Perchè per Erik l’identità viene prima di qualsiasi cosa e i vestiti ne sono quasi un casuale derivato: «Quando ho iniziato, ho speso i soldi che avevo in pubblicità sulle riviste come The Face o iD, prima ancora di realizzare i capi. Per confondere e incuriosire deliberatamente i consumatori, che non avevano idea di cosa fosse FUCT quando è apparso per la prima volta nella pubblicità cartacea. Le primissime inserzioni erano pagine nere che recitavano: "Questa pubblicità è Fuct". Un grosso rischio, dato che non avevo le finanze per portare avanti una campagna del genere, ma fortunatamente il mio istinto si è rivelato corretto.» Sprizza cinismo, un realismo disilluso sullo stato delle cose, sul fatto che la cultura pulp e underground siano oggi mainstream, concepiti per sconvolgere una coscienza borghese che non esiste più: «Nell’epoca in cui le masse vogliono sembrare anticonformiste - scriveva Andy Warhol - l’anticonformismo dev’essere prodotto per le masse». Il legame tra l'eredità di Warhol e Brunetti è infatti molto stretto, porta il nome di Ivan Karp, colui che ha scoperto Warhol e ne ha coltivato la carriera. «Vedeva delle somiglianze tra il mio lavoro e quello di Warhol, nel senso che entrambi ci riappropriavamo di immagini della cultura pop e avevamo uno stretto legame con la moda. Il collegamento tra arte e prodotto era inevitabile, le due cose funzionano molto bene insieme, secondo me.»  

Ma il fatto che l’arte si faccia prodotto, per Brunetti non è un vincolo per la sua essenza, anzi: «L'arte dovrebbe essere di natura ribelle, non dovrebbe conformarsi. Noi non ci preoccupavamo delle ripercussioni, della politica o della cancel culture. Oggi i marchi e gli artisti sono terrorizzati dall'idea di andare controcorrente per paura di essere cancellati o di vedersi rovinare la vita. Il movimento punk si basava sull'uso di immagini che mettevano a disagio lo spettatore, o su immagini così scioccanti da diventare comiche in modo oscuro. È triste quello che è successo al mondo creativo di oggi, troppi guardiani che creano nuove regole da rispettare. Le regole sono fatte per essere infrante» mi dice Erik. Ma quando anche l’anti-modello diventa modello, quando la controcultura diventa cultura e tutto si svuota della sua valenza ideologica, cosa resta della dissidenza? E cosa resta di Fuct? 

«Oggi tutto ciò che va contro l'establishment è controcultura: Hollywood, Big Pharma, tutta la propaganda perpetuata e armata dai media. È interessante notare che oggi i marchi e i designer che si presentano come ribelli o contrari all'establishment sono in realtà parte dell'establishment o in accordo con esso. Rifiutare e resistere a ciò che ho menzionato in precedenza è 100% controcultura. FUCT è sempre stato DIY e completamente indipendente. Lo è ancora oggi, ed è per questo che credo sia ancora attuale. La maggior parte dei marchi di streetwear che esistono attualmente sono di proprietà di grandi aziende che si limitano a nominare un influencer o a creare una personalità come volto del marchio. FUCT fa quello che vuole, quando vuole, io lo gestisco con un approccio poco ortodosso, non dico che sia il modo giusto di gestire un marchio, ma per me funziona.»


Credits:

Interview: Maria Stanchieri
Photographer: Sami Oliver Nakari
Production nss factory