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La storia dello streetwear raccontata nell’archivio di Slam Jam

Intervista ai creatori della mostra virtuale che ripercorre per suoni e immagini la vicenda di Luca Benini

La storia dello streetwear raccontata nell’archivio di Slam Jam Intervista ai creatori della mostra virtuale che ripercorre per suoni e immagini la vicenda di Luca Benini

Uno degli effetti del lockdown, che ha reso tanto incerto il prossimo futuro, è stato quello di costringerci a guardare verso ciò che prima c'era e ora è scomparso. Per i brand e le grandi personalità della moda, questo ha significato l’inizio di un periodo di introspezione durante il quale si è ragionato sul passato e sulle concrete manifestazioni della sua ricchezza: gli archivi. Proprio per ridare vita ai propri archivi, che costituiscono una cronaca visuale e sonora del trentennio che ha visto l’ascesa dello streetwear, Slam Jam ha collaborato con l’agenzia Nationhood alla creazione di una singolare mostra virtuale costituita da uno stripe a scorrimento infinito che contiene immagini inedite, foto di prodotti insolite, ricordi personali e grafiche che catturano l’essenza di quel titano culturale che è stato, per il mondo dello streetwear, Slam Jam in Italia. Un ricco patrimonio genetico, che ha il suo nucleo nella leggendaria figura di Luca Benini, e che ora torna in vita grazie a un rivoluzionario approccio multi-disciplinare (approccio in realtà seguito ed elaborato da anni da Slam Jam in un numero incalcolabile di iniziative e progetti) che vuole fare il punto su un passato glorioso ma guardando al futuro in divenire – fondendo il ricordo e il digitale, le memorabilia e le piattaforme cross-settoriali. 

Naturalmente si sta parlando di un archivio immenso, composto da oltre 30.000 oggetti, senza menzionare foto-ricordo, video, grafiche e suoni. Per capire meglio le logiche narrative e organizzative di questo enorme progetto, la redazione di nss ha intervistato i fondatori di Nationhood Achille Filipponi e Matteo Milaneschi facendosi raccontare lo sviluppo di questo straordinario progetto.

Che tipo di materiali include un archivio come quello di Slam Jam? E cosa dicono questi materiali sulla sua storia?

Diciamo che Slam Jam come realtà è un caso particolarissimo. Un prisma culturale. Stiamo parlando di un vero ente culturale, oltre che un’azienda. Un patrimonio dell’antropologia del look e della cultura visiva. Luca Benini, il fondatore, è sempre stato al centro delle subculture underground: dal clubbing della riviera romangnola dei primi 80, alla scena hip hop internazionale degli anni novanta fino alle neo-avanguardie giapponesi dei primi anni zero. È un patrimonio documentale vario e molto legato all’arte e alla musica underground.

Nel valorizzare l’archivio di Slam Jam ha avuto più valore la singola scoperta o il quadro storico collettivo che ne emerge?

L’archivio è pieno di pezzi di grande valore, ma la cosa più importante è sicuramente il quadro generale. Slam Jam è stata e rimane una “cosa” complessa e ibrida, che si è mossa agilmente tra ricerca culturale e collaborazioni internazionali. Questo produce nell’archivio un disegno in cui tutto è interconnesso e restituisce legami costanti tra diversi fenomeni culturali, dove, alto e basso, metropoli e periferie, mainstream e undergorund, si incontrano e si attraversano.

Che sistemazione segue lo stripe a scroll infinito creato da Nationhood?

La stripe segue una filosofia di base che è quella di destrutturare l’archivio nella sua totalità e creare un nuovo atlante. È un atlante caotico su base associativa che crea una sequela di canvas che a loro volta contengono nuovi correlazioni tra i pezzi. Questa nuova disposizione democratizza gli elementi del patrimonio e accosta mondi. È possibile che convivano ad esempio, uno snapshot di LA nel ‘92, una felpa Stussy e una pagina strappata con un drawing di Futura 2000: è una disposizione “da archivio”? Sicuramente no, ma restituisce un quadro culturale di riferimento. Questo era il nostro interesse primario e la via da seguire per Slam Jam.

Qual è stata la scoperta più insolita o degna di nota che avete fatto nel passare in rassegna l’archivio? Cos’è che invece è stato escluso?

Onestamente non riusciremmo a fare una scelta precisa di un singolo pezzo… in senso stretto per quanto riguarda la moda abbiamo trovato alcuni capi di Pervert quasi introvabili, dato che le produzioni sono state limitate come la vita del brand stesso. In senso più generale, opere d’arte, e un bank fotografico di altissimo profilo; c’è anche una estesissima collezione di skateboard e alcune shopper in plastica degli anni 80 davvero notevoli, di Fiorucci, del New Order di Riccione o di Polvere di Stelle di Bologna. Ci sono anche le maglie introvabili di Forty Acres and a Mule dal negozio di Spike Lee a Brooklyn. Molta parte dell’archivio è esclusa dalla stripe, che è come la punta di un iceberg ed è stata progettata con una base sottostante di consultazione tecnica, che prevede la digitalizzazione di quasi la totalità dell’archivio.

Sul piano della curation, quali sono le differenze e le difficoltà di un approccio multidisciplinare, in questo caso con immagini, video e musica, rispetto a un approccio monodisciplinare, come ad esempio un carousel di foto?

Il costume è cultura, quindi un approccio complesso è l’unico che si possa seguire. Per noi un archivio di moda è un archivio di cultura visiva. Il valore estetico delle cose non è il loro “estetismo”, è un valore fatto di fenomeni interconnessi e peso culturale. Da sempre questa è la filosofia che seguiamo. Questo aumenta le difficoltà perché mentre si opera bisogna tenere conto, ad esempio, di quanto sia connesso il vestiario di Douglas Pierce al suo modo di scrivere musica in “The world that summer”, o alla grafica della cover di quel disco, ma questi sono legami indissolubili che un approccio monotonale non può restituire. Sarebbe come estromettere la moda dalla storia. Nationhood si occupa di progetti culturali e la maggior parte delle volte, come editor o come curatori, in questi progetti rimescoliamo le discipline e i campi per una nuova offerta, ma questo per noi vuol dire potere di sintesi, non semplicità in partenza.

Come si fa a far tornare in vita un archivio del genere in maniera costruttiva, ossia senza restare fermi nel passato?

Sicuramente ogni archivio è vivo, cambia costantemente mentre prende forma. Da parte nostra noi pensiamo sempre a progetti che siano multilayer e che non si limitino a mostrare il patrimonio. Ogni pezzo dell’archivio non diventa solo “visibile”, ma un vero e proprio pretesto per attivare connessioni e ulteriori ricerche. Oltre questo ti possiamo dire che Archivio Slam Jam non è solo il progetto digitale ma anche una coda lunga di progetti editoriali e interventi offline. Tutte queste attività rappresentano il vettore che getta i documenti nel presente e nell’attuale, proprio perché i pezzi non sono tasselli di una struttura ordinata, quella è la loro origine, dalla quale si arriva ad Archivio Slam Jam che è a tutti gli effetti un prodotto quasi di digital publishing.

Perché nel 2021 si sente il bisogno di un recupero dei materiali d’archivio?

Perché l’archivio è una fonte pura che traccia l’estetica contemporanea, è la polpa interna della moda che dimostra la sua complessità. Dentro l’archivio ci sono le cose per come sono, ma quando le vediamo tutte insieme sono più della loro somma e recuperano la loro aura.