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Ottobre 2020: il mese “fantasma” della moda

C’è ma non si vede

Ottobre 2020: il mese “fantasma” della moda C’è ma non si vede

La fashion week non è solo un’istituzione culturale e commerciale del mondo della moda, ma risponde a esigenze logistico-organizzative. Riunire tutti gli show dei principali brand di moda sotto la bandiera di un’unica manifestazione risponde a un bisogno pratico. Ma quando, come quest’anno è avvenuto, molti dei fashion events e delle sfilate esiste solo in forma digitale, questa principio di praticità ricade e ognuno balla al ritmo della propria musica. Durante questo mese di ottobre si sono infatti tenuti moltissimi eventi di alto profilo: i video-show per le collezione SS21 di Celine, Maison Margiela, Lanvin e Balmain, il debutto di Raf Simons nel womanswear, il mini-show di Comme des Garçons a Tokyo, la release dei lookbook della Resort 2021 di Dior Homme, della SS21 di Givenchy, di Dries Van Noten, Craig Green ,Lacoste, Miu MiuAmbush e Thom Browne. A fine settembre, invece, erano arrivate in ordine sparso le collezioni di Undercover, Marine Serre e Heron Preston mentre il prossimo novembre toccherà a Gucci con la sua collezione SS21.  

Quasi tutti questi show si sarebbero normalmente svolti durante la Paris Fashion Week. Ma in realtà si sono espansi lungo tutto l’arco del mese, con un gran numero di big players dell’industria (inclusi brand del mega-gruppo LVMH) che sono stati ben felici di abbandonare le schedule abituali. La conseguenza commerciale più diretta di questo fashion month “fantasma” è sicuramente per i buyer, che saranno presumibilmente costretti a piazzare i propri ordini seguendo il ritmo diseguale delle presentazioni invece che concentrarli tutti in una singola settimana. Ma la vera conseguenza è per i brand: già due anni fa Alexander Wang aveva registrato un impatto mediatico enorme quando decise di darsi agli show indipendenti e, oggi, la dinamica delle presentazioni, nella sua disorganizzazione, ha mostrato come lo show digitale slegato dal calendario ufficiale possa dare ai singoli brand molta più rilevanza mediatica oltre che eliminare il clima di competizione che domina nella serratissima sequela di show della classica fashion week.

A prescindere da tutto, la stagionalità della moda (prima del proliferare di capsule collection e pre-collezioni) era nata con l’obiettivo di creare un ordine. Se la situazione attuale dovesse riproporsi, però, e il “contenitore” della fashion week dovesse disgregarsi si piomberebbe proprio nella problematica che si voleva evitare: il sovraffollamento di show che provano a superarsi l’un l’altro in spettacolarità, slegati da una location quindi anche sparsi in giro per il mondo e nel corso dell’anno come in un’eterna stagione Resort. E se a Milano si prova ancora ad aggrapparsi a una parvenza di ordine, Parigi e Londra già perdono pezzi e New York è moribonda. 

La coesione culturale della fashion week, in breve, può esistere solo in presenza di eventi fisici, agisce anche una sorta di ancora, che contestualizza lo show di moda e riunisce tutti i brand nello stesso habitat culturale. Nella libertà del digitale, ognuno lavora da solo. Se un domani fosse il formato phygital a prevalere, con passerelle fisiche riprese dalle telecamere, niente distinguerebbe la classica sfilata da un normale video-catalogo, privando di rilevanza il concetto stesso di show, al netto dei valori di produzione. Rimane solo da vedere, a seconda dell’andamento della pandemia, se il numero di questi fashion month “fantasma” aumenterà, se questi stessi si concretizzeranno mai in un’organizzazione a sé stante o se, dopo questa breve parentesi di semi-anarchia, verranno riassorbiti dal calendario abituale.