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La pandemia non ha distrutto il fast fashion

Dopo i mesi di lockdown siamo tornati alle vecchie abitudini di shopping

La pandemia non ha distrutto il fast fashion  Dopo i mesi di lockdown siamo tornati alle vecchie abitudini di shopping

Ben prima dell'emergenza sanitaria il fast fashion era uno dei settori più in crisi dell'industria della moda. Da tempo ormai colossi del settore come H&M o Gap si trovano ad affrontare le conseguenza di un modello di business ormai superato, una situazione peggiorata dalla nuova coscienza ambientale di un pubblico di consumatori, la Gen Z, mai come oggi strategico, che si muove di pari passo ad una visione diversa della moda, che torna ad essere duratura, slegata da trend passeggeri, un mindset ulteriormente accentuato dalla pandemia

Proprio per questo secondo molti il lockdown poteva essere un'opportunità per rallentare il ritmo di un'industria che si muove ormai su tempi insostenibili, sia a livello di produzione che di consumo, due fattori che hanno degli effetti devastanti sul volume di merce invenduta di cui i brand si devono poi disfare. Solo nel Regno Unito infatti si parla di 11 mila capi di abbigliamento distrutti ogni settimana. La domanda quindi è: è andata davvero così? Abbiamo iniziato davvero a fare shopping in modo diverso, più consapevole, più oculato? 


Il fast fashion inglese

All'indomani del primo lockdown e di fronte alla seconda ondata, l'industria della moda si trova a fare i conti con dati contrastanti, che se nei mesi passati attestavano una crescita, oggi devono invece prepararsi a nuovi crolli. Nel Regno Unito, ad esempio, il lockdown della scorsa primavera ha provocato un crollo delle vendite in-store di quasi il -70%. In aprile invece le vendite online sono cresciute del 22%, rispetto allo stesso periodo del 2016 - dati positivi, ma che potevano essere migliori. Le vendite di beni casalinghi sono invece cresciute del 187% rispetto allo stesso periodo del 2016. 

Restando nel Regno Unito, ASOS, gigante del fast fashion inglese con uno degli e-commerce più popolari al mondo, ha pubblicato la scorsa settimana il report annuale sulle proprie vendite. ASOS ha registrato un aumento del 329% di utile al lordo delle imposte, con un aumento del 19% a livello di vendite nel Regno Unito, in Europa e negli Stati Uniti. Allo stesso tempo però l’azienda ha registrato una perdita a livello di margine lordo e ha visto calare significativamente il prezzo delle proprie azioni. 

Un esempio della difficoltà che stanno vivendo i grandi brand del fast fashion si riscontra anche nel caso di Boohoo, gigante del settore che possiede tra gli altri anche Pretty Little Thing, Nasty Gal, finito al centro dell’attenzione pubblica dopo che un’indagine del Sunday Times aveva rivelato condizioni di lavoro precarie e stipendi al di sotto del salario minimo in una fabbrica del brand a Leicester. Il gruppo era stato aspramente criticato quando fu diffusa la notizia che diverse fabbriche erano rimaste aperte anche nei mesi del lockdown, quando tutte le attività non essenziali erano state chiuse. 

 

L'impatto sulla filiera 

Non va dimenticato che ciò che si acquista online o in store è solo l'ultimo step di una catena di produzione che nasce e si sviluppa per la maggior parte dei brand del settore in Asia, in fabbriche messe in ginocchio dall'emergenza sanitaria. Il grande calo delle importazioni che ha interessato i brand europei del settore moda tra gennaio e giugno ha avuto un impatto devastante sui fornitori. Nell'industria della moda è inoltre prassi comune effettuare i pagamenti, ai fornitori, alle fabbriche e agli stessi lavoratori, dopo che l'ordine è stato effettuato e consegnato. Secondo i dati di Bloomberg dello scorso marzo, i compratori europei, incluso Primark, un altro gigante del fast fashion, avevano già cancellato ordini per un valore di $1.5 miliardi di dollari in Bangladesh, andando a colpire oltre 1000 fabbriche del Paese e 1.2 milioni di lavoratori. 

 

La componente psicologica 

Come riporta un articolo pubblicato da NewsStateman, soprattutto in tempo di pandemia è cambiato il nostro approccio mentale allo shopping. Il nostro comportamento si muove solitamente in due direzioni: o siamo mossi da una coscienza sociale e ambientale, animati dal desiderio di aiutare gli altri e di dimostrare il nostro senso di integrità, o diventiamo più impulsivi. Questi due tipi di comportamenti non si escludono a vicenza, anzi, sembrano alternarsi in modo quasi perfetto: dopo esserci comportati in modo morale per un po' infatti subentra un periodo dominato dall'impulsività. Gli acquisti impulsivi regalano una sensazione positiva, ci fanno stare bene, grazie alla dopamina che rilascia il cervello in quel momento. È questa emozione che porta le persone a fare acquisti inutili, spesso da brand del fast fashion, spinti da un'urgenza (che non esiste) di comprare, continuamente, anche per il solo gusto di farlo, anche quando si è chiusi in casa, senza eventi o cene importanti a cui partecipare. L'urgenza di comprare qualcosa, qualsiasi cosa, è riflessa perfettamente nei dati relativi alle vendite online dei giganti del fast fashion riportate sopra. Ad aprile ad esempio ASOS è stata inondata di ricerche per capi casual, e tutto ciò che poteva essere indossato durante le giornate di lockdown. 

L'andamento del settore fast fashion è altalenante: dopo i difficili mesi primaverili, le vendite online di ASOS sono nuovamente cresciute ad agosto, con un aumento del 97% rispetto allo stesso mese del 2016. Per quanto si tratti di dati positivi per l'industria e per l'economia in generale, sono anche la prova che nel giro di pochissimo siamo tornati a fare shopping come facevamo prima del lockdown, spinti da offerte che appaiono irrinunciabili e mossi dal desiderio di possedere item anche per una sola stagione, dimenticandoci presto di tutti i buoni propositi fatti qualche mese fa.