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Il problema con il marketing di Givenchy

Le celebrity hanno potere, ma l’hype non si può fabbricare

Il problema con il marketing di Givenchy Le celebrity hanno potere, ma l’hype non si può fabbricare

Nel corso dello scorso weekend, i feed Instagram di mezzo mondo sono stati invasi da una pioggia di star che indossavano total look dell’ultima collezione SS21 di Givenchy disegnata da Matthew Williams. Una carrellata composta da Travis Scott e Kylie Jenner, J Balvin, Kate Moss, Naomi Campbell, Alton Mason, Skepta, Kaia Gerber, Kim Kardashian, Bella Hadid e tutto quel giro di volti noti e meno noti (che include anche lo stesso Williams) facenti parte della friends & family del brand. Ricorrere a mega-influencer e attori famosi è ormai un po’ una prassi comune di tutti i brand di lusso ma con questo progetto siamo (purtroppo) lontani da momenti iconici come l’apparizione di Adrien Brody, Willem Dafoe e Gary Oldman sulla passerella di Prada, nel lontano 2012. La strategia social di Givenchy non è infatti nata con l’intenzione di associare volti della cultura pop al sistema di valori del proprio brand ma ha invece l’aria di un generico arraffa-arraffa per sfruttare gli aspetti più momentanei e superficiali del celebrity marketing. C’è solo un problema: l’hype nasce, non si crea.

Questo episodio è uno degli esempi più palesi di come un certo lato dell’industria della moda stia provando a riprodurre l’hype a tavolino – ma l’hype è un fenomeno sociale che viene dal basso, dalla strada e non può essere imposto unilateralmente dall’alto senza che i consumatori non se ne accorgano. La campagna (ma è una campagna?) di Givenchy non è interessata all’estetica o allo storytelling: è solo un violento attacco frontale all’attenzione del consumatore il cui risultato finale è paradossalmente blando, pigro e forzato insieme. Blando perché mancano la storia e l’art direction: si riduce tutto a un mucchio di superstar vestite con abiti costosissimi – ossia il pane quotidiano di chiunque abbia un profilo su Instagram. Pigro perché non si avverte il desiderio di creare una cultura o un’estetica ma i protagonisti di questa non-campagna sembrano essere stati scelti solo in base al loro numero di follower e gli è stata data carta bianca, con foto chiaramente sub-standard, sfocate o (peggio ancora) banali. Forzato perché un così enorme dispiego di celebrity fa presupporre un bisogno di attenzione eccessivo per un brand e un creative director che, già di per sé, hanno tutta la visibilità che meritano e anche di più. 

Forse se le star protagoniste fossero state due o tre invece che cinquanta (sic!) e se l’iniziativa social fosse stata graduale nel tempo non ci sarebbe stato nulla da eccepire. Dopo tutto, come si è detto, ricorrere al celebrity marketing è un po’ una prassi comune per i brand di lusso – ma è anche un’arte che richiede sottigliezza, calcolo, tempismo. Prendiamo ad esempio il fenomeno-Jacquemus, vera pietra di paragone moderna del successo social di un brand: l’hype creatosi intorno a Jacquemus è, nel bene e nel male, frutto di una strategia paziente e organica, di un attento tempismo e di un assai misurato ricorso allo star power di Bella Hadid, resa volto ufficiale del brand in campagne sorprendenti e nelle sfilate senza eccessive fanfare. Ma se, prima della sua fama mainstream, il profilo Instagram di Jacquemus è stato quasi un moodboard del suo designer, un diario visivo che ora è venduto addirittura come libro fotografico a sé stante, Givenchy è andato subito all-in con lo star power, giocando le sue carte tutte d’un colpo, tradendo subito le sue vere intenzioni: vendere.

Riccardo Tisci aveva iniettato nuova vita nelle vene Givenchy, una maison in storica crisi d’identità come ebbe a dire una volta Alexander McQueen in una delle uscite più abrasivamente oneste della sua carriera.  E Tisci, diciamolo, aveva rivitalizzato il brand con un’estetica nuova per i suoi tempi ma, in ultima analisi, invecchiata non benissimo (la maglietta con il rottweiler, le stelle ovunque, le hoodie logate in tutte le boutique di provincia sono le greatest hits della sua carriera) ma erano altri tempi, ancora il mercato non era saturo di prodotti streetwear e almeno c’era l’aria della novità.

E dopo il sonnolento interregno di Clare Waight Keller, Williams avrebbe dovuto ridare lustro all’antica casa – la sua collezione di debutto funzionava, per lo più, anche se c’era spazio per miglioramenti. E questa collezione avrebbe dovuto sedimentarsi di più nell’inconscio collettivo prima di essere sbandierata senza il minimo garbo come è invece appena successo. Ma, a quanto pare, tutti quelli che contano la indossano adesso. Siamo curiosi di attendere la maniera in cui il brand proverà a superare se stesso quando la collezione approderà nei negozi: è difficile immaginare una campagna tanto over-the-top da cancellare il ricordo di questa.