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Il revenge spending farà ripartire il mercato del lusso?

La Cina è tornata a spendere più di prima dopo la riapertura, non è detto che lo stesso accadrà anche in Europa

Il revenge spending farà ripartire il mercato del lusso? La Cina è tornata a spendere più di prima dopo la riapertura, non è detto che lo stesso accadrà anche in Europa

Secondo un report di WWD, nella sola giornata di sabato scorso, in uno dei primissimi giorni dopo la riapertura, la boutique di Hermès di Guangzhou ha fatturato un totale di 2,7 milioni di dollari. Una cifra molto alta anche rispetto ai normali standard, che ha aperto la discussione su come il mercato del lusso e i suoi consumatori reagiranno alla fine del lockdown.
Dopo che nel 2003 l’epidemia di SARS in Cina aveva causato un simile periodo di calo nelle vendite, la fine dell’epidemia vide il pubblico spendere assai più di prima - un fenomeno denominato revenge spending che si verifica quando un consumatore, dopo un momento di risparmio forzato, spende “per vendetta” più del normale. Molte società di consulenza stanno già cercando di analizzare i primi dati emersi dalla riapertura cinese per pronosticare se il revenge spending sarà il comportamento dominante anche in occidente per ridare fiato ad un’industria che rischia di pagare un prezzo molto alto. Gli esperti hanno opinioni discordanti sul comportamento dei consumatori post crisi: alcuni credono che non cambierà niente altri sostengono che la crisi sarà uno shock psicologico notevole e cambierà radicalmente i drive nello shopping del lusso. 

I dati cinesi tuttavia difficilmente saranno un pronostico affidabile per tutto il mondo in quanto l’attitudine dei consumatori in Cina è molto diversa dall’Europa: basti pensare a come, secondo un report di The Business of Fashion, la Cina è stata responsabile della metà della crescita del mercato del lusso primario tra il 2012 e il 2018 continuando a crescere di anno in anno. In secondo luogo, la crisi economica che si prospetta a fine epidemia, che rende difficile pensare che anche in Europa possano verificarsi forme di revenge spending intense come quelle che si sono viste in Cina. Ma nemmeno in Oriente il fenomeno si è verificato secondo le stesse modalità del 2003, e per un semplice motivo: ne sono cambiati i presupposti.

Un report sull’atteggiamento dei consumatori cinesi di Jing Daily ha classificato tre ordini di problemi riguardanti il revenge spending. Il primo è il risveglio delle coscienze dei consumatori più giovani che, a crisi sanitaria finita, e sullo sfondo di un’economia florida ma in fase di rallentamento e in piena guerra dei dazi, sarebbero meno inclini spendere per beni di lusso inessenziali e opteranno per consumi più consapevoli. La seconda problematica riguarda invece la sostenibilità, con una marcata preferenza accordata dai consumatori ai brand sostenibili e supportata da statistiche social che parlano di un fortissimo aumento delle discussioni online centrate sui problemi della conservazione dell’ambiente e dell’ecologia. La terza questione è quella nazionalistica: una nuova sensibilità sociale spinge i consumatori cinesi a supportare i brand autoctoni sia come riscoperta di un heritage abbandonato in favore di prodotti di lusso europei, sia comme atto di solidarietà verso piccoli brand indipendenti che, a differenza di titani commerciali come LVMH o Kering, sono rimasti schiacciati da questa crisi.

Proprio su questo si concentra Eugene Rabkin che in un articolo pubblicato su The Business of Fashion espone un punto di vista scettico nei confronti di un cambiamento radicale della fashion industry:

“Abbiamo condizionato milioni di consumatori a sentire il bisogno di una riserva sempre nuova di abiti economici che li facciano stare bene. [...] Le ricerche dimostrano che, nonostante le loro preoccupazioni per la sostenibilità, la maggior parte dei Millennials non acquista responsabilmente, perché gli abiti sostenibili sono costosi rispetto al fast fashion.[...] Cosa sarà a mancare dallo scenario? Tutti i brand indipendenti più piccoli e lenti [...]. Sarà la tragedia della loro scomparsa, più che l’illuminazione dei consumatori, a caratterizzare il mondo della moda post-pandemia”.

Una visione che forse suona cinica ma potrebbe essere realistica. Specialmente nell’evidenziare come il sistema-moda nel suo desiderio di diffondere il proprio mito e spingere l’acceleratore del marketing abbia creato un’enorme fascia di consumatori che vogliono vivere il “bel sogno” dei creative directors ma non possono accedere a prodotti i cui prezzi sono tutt’altro che democratici e che per questo si rivolgono al fast fashion. Il circolo vizioso così avviato difficilmente tiene in considerazione sostenibilità e durevolezza dei prodotti: a contare è la novità, il poter replicare lo stile di un certo brand a un quinto del prezzo e in definitiva il brivido del consumo.

L’incertezza del futuro è data anche dal fatto che i cambiamenti portati dalla pandemia sono tanto economici quanto psicologici: quando la psicologia dei consumatori cambia, cambiano le abitudini di acquisto. Per questo il report di Jing Daily enfatizza l’importanza che, nel mondo post-coronavirus, i brand dovranno dare alla comunicazione e interagire con un pubblico più attento all’ambiente e maggiormente provato dalle difficoltà economiche causate dalla pandemia.