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Op-ed: Milano è ancora la meno diversificata di tutte e quattro le città della moda

Una riflessione su quanto l'industria della moda milanese sia inclusiva

Op-ed: Milano è ancora la meno diversificata di tutte e quattro le città della moda Una riflessione su quanto l'industria della moda milanese sia inclusiva

Negli ultimi dieci anni Milano è diventata si è imposta come la città d'avanguardia italiana: la moda, il design e i grandi investimenti hanno proiettato la città verso una dimensione globale, sia da un punto di vista economico che sociale. La città - anche grazie al sindaco attuale Beppe Sala e al precedente Giuliano Pisapia - è l'epicentro del pensiero progressista italiano che fa dell'inclusività e della non discriminazione uno dei suoi capisaldi. Il settore della moda a Milano è stato parte di questo nuovo paradigma spingendo la città ad aprirsi il più possibile verso il resto del mondo e le minoranze.
Eppure, nelle ultime settimane sono accaduti eventi - tra cui anche l’affermazione di Luka Sabbat sul rapporto della città con le persone di colore - che mettono ancora in discussione quanto la reputazione della città sopratutto quando essa viene paragonata alle altre città della moda: Londra, New York e Parigi.

Negli ultimi 3-4 anni, The Fashion Spot ha pubblicato rapporti sull’eterogeneità di modelli sulle passerelle delle Fashion Week in tutte e quattro le città della moda. Questi rapporti includono un sondaggio sull'uso di modelli di colore, plus-sized, transgender, non binario e al di fuori della normale fascia di età. Ogni stagione, sebbene le percentuali di questi rapporti possano variare, il formato delle città è rimasto più o meno lo stesso in termini numerici. New York al primo posto, Londra e Parigi alla volta possono alternarsi tra il 2° e il 3°, ma una cosa è certa: Milano finisce sempre al quarto posto. Da uno dei primi rapporti fatti sulle passerelle dell'autunno 2015 fino all'ultimo rapporto delle sfilate dell'autunno 2019, Milano è riuscita a rimanere costantemente dietro tutte le altre città.

Il presidente della Camera Nazionale della Moda Internazionale (CNMI), Carlo Capasa, ha risposta alla domanda sui risultati scoraggianti delle passerelle SS16 qualche anno fa durante un'intervista , dicendo che la mancanza di rappresentanza a Milano non aveva nulla a che fare con la discriminazione razziale, “Siamo molto concentrati sul piacere a tutti a Milano, ed è difficile vedere una sfilata di moda senza due o tre etnie rappresentate sulla passerella - è quasi impossibile. Come vedo Milano? Milano non conosce discriminazioni basate sul colore della pelle ", ha spiegato.

Potrebbe essere stato troppo generico e ambizioso affermare che un'intera popolazione non sia razzista, soprattutto considerando il movimento Salviniano che è seguito poco tempo dopo, ma il problema più preciso è che l'industria della moda milanese si riferisce o pensa alla diversità solo come qualcosa sulle passerelle e davanti la macchina fotografica. A Milano, quando viene sollevato il tema della diversità, è quasi sempre in riferimento solo ai modelli. Tuttavia, il problema deriva da un luogo molto più profondo di quello.

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La diversità non è una spunta da segnare o un casella da riempire, ma invece offre una serie di opportunità alle aziende per avere una visione più ampia della realtà. Naturalmente le persone in posizioni di comando non offrirebbero un background e prospettive diverse, ma sono anche inclini a lavorare professionisti più simili, generando un effetto moltiplicatore sulla diversità di un'azienda. Questo discorso vale per tutti gli ambienti collegati al mondo della moda, inclusi direttori del casting, fotografi, stilisti, editori, designer ecc.

Durante la settimana della moda, il pubblico delle passerelle di Milano è piuttosto variegato, tra editor, influencer, stylist e altri addetti della moda che viaggiano da Londra, Parigi e altre città per le grande sfilate. Ma cosa succederebbe se si dovesse fare una sfilata di moda a Milano e invitare solo i redattori, gli influencer, stylist e personale del settore italiani?

Milano è una delle città meno diversificate al mondo in termini di personale della moda, e nel mio piccolo sono in grado di attestarlo semplicemente contando sulle dita di una mano la quantità di persone di colore attivamente coinvolte nel settore.

Prendiamo ad esempio l'ultimo grottesco video di CNMI "Hotel Diversity". Da quella campagna, 2 dei 7 modelli presentati erano di colore. Il che è più o meno ok, ma rimpicciolisce la scala più ampia, delle oltre 30 persone coinvolte nella produzione del progetto, solo 3 di loro erano di colore, che comprende i 2 modelli e 1 designer. Questo schema non è un problema distintivo di CNMI, ma è qualcosa che affligge l'intero settore della moda italiana. All'inizio di quest'anno, quando i marchi italiani Gucci e Prada sono entrati entrambi in scandali con accuse di blackface, il loro primo istinto è stato assumere personale di colore per aiutare a risolvere  questo problema.

Limitare la diversità solo ai volti dei modelli è come mettere un semplice cerotto su una ferita profondamente infetta.

Questa mancanza di rappresentazione non vuol dire che ci sia una mancanza di risorse diverse nella città: "C'è una mancanza di opportunità e accesso per le persone con background sottorappresentati nel settore della moda, è una questione sistematica legata all'omogeneità della leadership del settore", ha spiegato Erica Lovett, Direttore per l'inclusione e la diversità di Condé Nast.

Il concetto di creare un settore diversificato è davvero molto più semplice di quanto sembri. Quando si pubblica una rivista o si vendono vestiti con la speranza che la maggior parte o tutti i membri di una popolazione acquistino, la rivista deve riflettere e includere la varietà intera di quella popolazione. Quando qualcuno fa un giro in metropolitana a Milano, o persino una passeggiata sul Monte Napoleone, ci sono persone di tutte le dimensioni, razze, età, forme e generi, quindi perché stiamo cercando così spesso di vendere un’unica prospettiva? Perché le nostre sale riunioni, i team di produzione e editoriali non riflettono questo aspetto?