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La foto di una bambina che sorride di fronte a un incendio e uno dei più famosi dipinti dell’arte occidentale. Uno si chiama Disaster Girl, una foto scattata per caso e diventata una dei meme più virali di sempre; l’altro è il Tondo Doni, l’unico quadro mai dipinto da Michelangelo e custodito agli Uffizi. Entrambi sono stati venduti lo scorso mese sotto forma di NFT  – e la Disaster Girl è costato pure molto più. A prima vista, la Disaster Girl e il Tondo Doni non potrebbero essere più diversi eppure entrambi sono icone culturali delle proprie rispettive epoche, così come Bad Luck Brian e Overly Attached Girlfriend, altri due meme venduti rispettivamente per 36.000$ e 411.000$ all’inizio di aprile. Nella prospettiva dell’arte contemporanea forse no – e dopotutto entrambi i casi, seppur separati, ci parlano di una svolta avvenuta da poco nel mondo della cultura, un trend inevitabile accelerato dalla pandemia e dal consolidamento delle criptovalute. Tanto da portare molti a domandarsi se un meme non possa essere considerato un’opera d’arte. Una parte del dibattito ritiene i meme un prodotto culturale a tutti gli effetti, e dunque anche un prodotto artistico, l’altra chi li ritiene soltanto una forma di comedy “bassa” che nulla ha a che vedere con l’arte vera. Tutte le parti, comunque, concordano nel definire quello dei meme un fenomeno – parola estremamente prudente che riconosce comunque il peso che la nascita e la diffusione dei meme online ha avuto nella cultura pop di oggi. 

Se infatti dovessimo cercare nella storia degli ultimi vent’anni un tipo di produzione culturale completamente nuovo rispetto alle categorie estetiche note all’uomo, i meme sarebbero la prima cosa che troveremmo. E in effetti la meme culture ha tutti i crismi di un linguaggio creativo vero e proprio: ha i suoi strumenti, i suoi codici e canoni espressivi, i suoi simbolismi, la sua capacità di sintetizzare con immagini e parole vicende umane che vanno dalle situazioni sociali fino alla geopolitica e persino una storia e una catalogazione. Questa produzione creativa, però, non rimane priva di problemi: il principale è, nelle parole di Ara H. Merjian, professore di italianistica all’Università di Berkeley, la loro «condivisibilità collettiva e senza autore»; ma anche la loro natura post-creativa e dunque la loro originalità e, infine, la loro legittimazione sociale – che richiederebbe un ampio riconoscimento da parte della critica e del mercato artistico.

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Cosa rappresenta un meme oggi?

Parlando con nss magazine, Alessandro Lolli, autore di La guerra dei meme. Fenomenologia di uno scherzo infinito, ha chiarito così la struttura dei meme: «La maggior parte dei meme, non tutti, si può dividere in due parti: una è il template, o la cornice memetica, che è ciò che non varia; che viene sovrascritta con nuovi contenuti e quella è la parte variabile del meme. Quindi un meme è composito e ha uno struttura sempre leggibile». Il template o la cornice è ciò che rende il meme riconoscibile: è l’immagine che non cambia mai, il viso del rage comic, il riferimento alla scena di un film o a un momento mediatico diventati virali. Il template diventa dunque la maniera in cui un meme dialoga e rielabora la cultura pop, immortalandola. Venendo isolato dal suo contesto, inoltre, quel momento diventa un’icona, perde tutti i suoi connotati temporanei e diventa simbolico di un significato universale, leggibile anche a coloro che non ne riconoscono la provenienza.

I meme rappresentano dunque uno spazio di riflessione creativo sulla cultura collettiva di un dato gruppo umano, capaci di contestualizzare immagini e situazioni pre-esistenti per esprimere pensieri e sentimenti più generali e trasformandole, di fatto, in metafore “aperte”. Secondo Darrin Wershler, ricercatore della Concordia University di Montreal, dice che: «I meme andrebbero interpretati come i discendenti digitali di artisti come Man Ray, Walker Evans e Andy Warhol – tutti avanguardisti le cui pratiche riguardavano per lo più il capovolgere gli assunti sulle informazioni e la società». La loro natura è spesso effimera, è vero, ma la loro capacità di codificare un messaggio stratificato che rimane in dialogo con tutti gli altri messaggi che lo precedono e lo seguono ha tutto in comune con l’attività artistica e la trasmissione di temi e linguaggi. Se la meme culture troverà legittimazione artistica, le servirà da un lato una validazione da parte delle autorità culturali e dal mercato dell’arte; dall’altro, bisognerà risolvere i suoi due principali problemi: l’originalità e l’autorialità.

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In che senso un meme dev’essere originale?

Una delle principali obiezioni all’idea di meme come arte riguarda ancora una volta il template: se esso è tratto da un prodotto culturale pre-esistente, il suo status è immediatamente secondario e subordinato all’opera originaria? Secondo la riflessione di Wershler parte dell’artisticità dei meme riguarda proprio la sua capacità di mettere in discussione il concetto di originalità e autorialità dell’arte in una maniera simile al Dadaismo: molte opere di quella corrente artistica, nacquero come reazione alla diffusione della stampa fotografica e ai primi mass media. Ad esempio, i collage di Hannah Höch esposti al Museo Nazionale di Berlino sono opere nuove create a partire da fotografie pre-esistenti, ma anche la Fontana di Duchamp non è stata creata fisicamente da Duchamp - è un’opera ready-made che è stata ricontestualizzata dall’artista che la fa propria. Alla stessa maniera quando scrollando nel proprio feed di Instagram si incontra Kathryn Hahn di WandaVision che strizza l’occhio non serve conoscere la storia della serie: l’occhiolino e il suo viso dicono tutto del significato del meme, senza dire nulla sua origine. In un certo senso, è lo stesso meccanismo che un produttore musicale impiega quando fa il sample di una canzone per creare una nuova base: quella sequenza di note è presa, ricontestualizzata e sovrascritta da un altro creativo che ne fa una nuova opera originale. È un processo che mette in discussione l’autorialità di una certa opera ma che continua a presumere in ogni caso la presenza unificante di un individuo o di un collettivo – ossia di un autore.

Quando nacque su 4Chan, nel 2003, la prima generazione di meme, composta in larga parte da rage comics che rappresentavano un campionario di reazioni emotive fisse simboleggiate da un personaggio disegnato, non aveva autori singoli ma funzionava come un’opera aperta a cui tutti potevano contribuire. Questa natura anti-autoriale dei meme, o «filiera memetica» come la definisce Alessandro Lolli, era intrinsecamente legata alla struttura “aperta” dei forum online. Col tempo i meme traslocarono dai forum ai social network  e, circa intorno agli anni ’10, iniziarono a nascere pagine gestite da singoli autori che iniziarono a usare il watermark. Alessandro Lolli però ci ricorda: «Si firma sempre il singolo meme […]. Ma appartengono a un autore solo le singole iterazioni di un meme. Quello che noi chiamiamo meme, come il template del Distracted Boyfriend o quelli elencati in Know Your Memes non tengono conto della singola iterazione. Il template non ha un autore e chi lo ha creato in origine è solo un accidente storico».

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Si guarda ma non si tocca

Uno dei principali dibattiti che hanno animato il mondo dell’arte negli ultimi anni è stato proprio il paradosso dell’esistenza di un’arte “intangibile”: le grandi opere d’arte si possono quasi sempre toccare con mano, ma cosa rende speciale un’opera che esiste solo nel codice binario? Se qualche anno fa l’opinione dominante propendeva per un concetto di arte tangibile, con il lockdown l’intera società ha dovuto riscoprire il mondo digitale e la sua importanza nella vita moderna - un processo che ha portato a una più larga accettazione della “cultura digitalizzata” anche e soprattutto a partire dall’arte. La mostra digitale è oggi diventata una realtà parallela a quella della mostra fisica - e all’inverso il mondo dei meme digitali, già da qualche anno in realtà, ha cominciato lentamente a manifestarsi sul piano della realtà tangibile grazie a una serie di innovative mostre d’arte organizzate in tutta Europa.

Le prime mostre dedicate ai meme a Roma o a Berlino dall’italiana Ornella Paglialonga hanno provato a risolvere questo nodo segnalando i nomi degli autori di un certo meme come si segnalerebbe quello di un’artista. Ma questo sposta il problema senza modificarlo: anche se, a detta di Lolli stesso, si possono tracciare dei paragoni stringenti fra la meme culture di oggi e le avanguardie storiche del ‘900, l’unica differenza rimane quella degli autori. La manipolazione dei codici è sostanzialmente la stessa che vediamo in atto in quei movimenti artistici, eppure quella delle avanguardie era operata da un manipolo di intellettuali, spesso aderenti a un manifesto, mentre i meme sono un prodotto della massa e, secondo alcuni, proprio per questo rappresentano una forma radicalmente più libera di arte.

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Il tassello mancante: rane e blockchain

Uno dei meme della “prima generazione” più celebri di sempre è Pepe The Frog, è stato co-optato da un movimento politico (in questo caso, l’ultradestra o alt-right statunitense) in un processo tanto complesso quanto interessante, che ha reso per molti anni il meme “un’arte di destra” (coniando il famoso slogan Left can’t meme) in opposizione al pensiero progressista intrappolato dal “politicamente corretto” incapace di essere edgy e autoironico. Uno dei primissimi joke metaironici nati anni fa su 4Chan era il Rare Pepe, ossia il personaggio originale veniva scherzosamente definito “raro” quando veniva modificato graficamente o inserito in nuovo contesto. Nel 2018, lo sviluppatore Joe Looney fondò Rare Pepe Wallet che fu il primo marketplace online dedicato a un meme e basato sulla blockchain. Il suo unico antecedente è il gioco online Spells of Genesis, che usava il blockchain per fare scambiare carte digitali ai propri utenti.

Le immagini di Pepe The Frog venivano comprate e scambiate esattamente come delle carte da collezione (alcune avevano lo stesso format delle carte di Magic: The Gathering), autenticate tramite il blockchain e vendute anche a prezzi esorbitanti: il record fu rotto per la prima volta nel 2018 quando al Rare Art Digital Festival un Pepe the Frog con l’aspetto di Homer Simpson venne venduto a 38.500$. In seguito, l’acquirente, Peter Kell, lo ha rivenduto come NFT lo scorso marzo a 321.440$ usando la crypto-valuta Ethereum. Con Rare Pepe Wallett si può forse parlare del primo vero marketplace di meme online – uno spazio comunque dedicato a una cerchia ristretti di appassionati e collezionisti ma che dimostra al di là di ogni dubbio come la tecnologia blockchain, che venne applicata per la prima volta all’arte nel 2014 (il timestamp di Quantum, primo NFT mai creato recita “05-03-2014 09:27:34”), si stia sviluppando. Oggi però, a poco meno di un decennio di distanza, gli NFT hanno trovato posto nel mercato d’arte mainstream e lo stesso Quantum verrà messo all’asta da Sotheby’s nella settimana che andrà dal 3 al 10 giugno.

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C’è un futuro per i meme nel mercato dell’arte?

Un futuro c’è, ma soprattutto c’è già un presente. Se la wave degli NFT proseguirà di questo passo, potremmo iniziare a vedere meme venduti come opere d’arte anche entro la fine dell’anno. C’è un unico fattore che manca ancora all’equazione: il tempo. Se arte e illustrazioni digitali esistevano ben prima del primo NFT e hanno trovato un riconoscimento soltanto a distanza di sei o sette anni, la forma espressiva dei meme ha ancora strada da percorrere. Probabilmente, la prima generazione che li ha creati dovrà essere già arrivata a dominare il mondo dell’arte perché la loro commistione di cultura “alta” e “bassa” possa essere compresa – non diversamente da come a Supreme servirono ventitrè anni per diventare un brand abbastanza celebre e prestigioso da collaborare con Louis Vuitton, oltre che un direttore creativo, Kim Jones, che lo ammirava per averlo conosciuto durante la propria giovinezza.

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Creative Direction - nss factory
Editorial coordination - Filippo D'Asaro
Words - Lorenzo Salamone
Production - nss factory
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