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Entrare in un atelier il giorno prima di uno show è sempre quasi meglio che vedere lo show. Quando capita di vedere Gabriella Karefa-Johnson al lavoro tra look e accessori? O i designer fermare una modella a metà camminata per sistemare una scarpa, l’orlo di un lungo abito trasparente ricamato di fiori? Quando capita, soprattutto, di vedere una collezione (ancora per poco) mai mostrata al pubblico in un singolo colpo d’occhio, tutta appesa insieme su una lunga rella? Questo è lo scenario che è apparso davanti a chi scrive quando è entrato nell’atelier di Etro per parlare con Marco De Vincenzo, veterano della moda, direttore creativo di Etro e Head Designer della pelletteria di Fendi, fondatore del suo marchio – sembra che tutti i ruoli in cima alla catena del mondo alimentare della moda siano facili da gestire per lui, che ne parla con una semplicità davvero sorprendente. «Credo che ogni lavoro sia un lavoro di gruppo. Oggi non c’è un singolo autore – c’è coralità», dice con un sorriso – e in effetti a osservarlo a lavoro si nota subito l’atteggiamento aperto di chi è abituato a coordinare una squadra, a dirigere una brigata o «quest’orchestra», come la definisce lui. «Non ho mai avuto un ufficio, ho sempre lavorato in luoghi comuni», spiega, evocando forse inconsapevolmente l’idea di un’assenza di pareti, delimitazioni o compartimenti stagni che è la stessa immagine con cui poi descrive il suo lavoro da Etro: «Uomo, donna, casa, accessori… È come lavorare a porte aperte. Spesso succede che il tessuto di una poltrona diventi una giacca, quello di una giacca diventi un divano. Sono vasi comunicanti». Che è poi anche il motivo per cui le sue prime tre collezioni del brand si trovano tanto in sintonia tra loro: «Le collezioni maschili e femminili di gennaio sono nate insieme, una è stata chiusa prima ma sono state fatte nello stesso momento».

Se per la prima collezione, specialmente, c’è stata una certa fretta («Ho avuto pochissime settimane per fare la prima collezione. E in effetti non ho potuto studiare») per quella che abbiamo visto qualche giorno fa a Milano, la FW23, le cose sono andate diversamente. «C’è il desiderio di pulire, di non stratificare troppo. Forse quello che è scomparso delle collezioni più recenti di Etro è quell’estetica hippie-chic che lo definiva. Però per questa collezione ho ripreso un po’ di quello spirito bohemién -  che è un altro aggettivo caro al brand». Mesi fa, De Vincenzo aveva in effetti dato ai look del brand una silhouette più compatta, meno legata alle frange e ai volant di Kean e Veronica Etro, meno tesa a evocare atmosfere boho-country a metà tra la tappezzeria del vicino Oriente e i Navajo americani quanto più a esplorare il disegno squisito di un motivo geometrico così fascinosamente vintage recuperato da un antico archivio. La nuova collezione, in effetti, è come un patchwork, altra immagine cara a De Vincenzo, di diverse epoche e diversi tessuti: «Tutto questo», dice descrivendo con un gesto l’intera collezione, «è un patchwork del loro patrimonio, mescolato senza un ordine cronologico. Ci sono pattern che vengono da un libro di fine ‘800, tirelle realizzate negli anni ’70 per Walter Albini – tutto è mescolato ma tutto è anche la storia di Etro. […] Questa è una collezione dedicata all’heritage, per questo si chiama Etro Radical: perché ha a che fare con le radici». C’è un altro elemento che affascina De Vincenzo nel parlare del brand che ora dirige: «Tutto può essere Etro, perché il brand nasce come una fabbrica. C’è un’artigianalità insita nel brand e qui si respira questa cosa. Io sono un uomo di fabbrica». Etro, in effetti, è un po’ un unicum nel campo della moda italiana in quanto, nascendo come azienda tessile, il brand possiede «una sua credibilità anche in categorie che non diventate ancora il core business del marchio» e dunque può produrre tutto, dagli accessori ai tessuti per la casa, senza mai uscire dal proprio ambito e dal proprio universo estetico.

Questo, se possiamo definirlo così, ecumenismo o eclettismo di Etro trova un inaspettato riflesso in De Vincenzo che ha «un rapporto simbiotico» con il passato, si definisce «un accumulatore». Parlando tanto dei suoi gusti personali che dei suoi diversi ruoli, oltre che del suo passato dice: «A me la moda piace tutta. Mi piace il minimalismo, mi piace il massimalismo… Non ho mai avuto pregiudizi. E questa è una cosa che ho anche pagato, perché specialmente se non hai esperienza significa essere inafferrabile e nella moda essere inafferrabili è sia un bene che un male. Oggi so controllare meglio questa macchina ma rimango attratto dagli opposti, non mi sento di escludere niente – magari un giorno farò una collezione monocroma. Mi attrae la sfida». A questo punto viene naturale domandarsi quali siano le sfide che De Vincenzo ha affrontato in questa collezione. Del resto, come si diceva, il linguaggio strutturato e materico del designer ha già rivoluzionato la silhouette vaporosa dell’Etro del passato anche se «qualcosa di più leggero e più svolazzante in questa collezione c’è». E prosegue: «Ci sono delle sfide personali che ti dai. Ed è bello sapere di potersi mettere in discussione. Indubbiamente gli abiti leggeri per me sono una conquista e posso dire che, a 44 anni, non ne avevo mai fatti. […] Il goal di questa collezione è sentirmi a mio agio con la leggerezza che è anche una chiave di lettura del marchio». Il nesso tra la cultura personale del direttore creativo e la cultura collettiva e familiare di Etro si trova a metà tra i due, tra il singolo individuo e l’istituzione multi-generazionale: «Portare dei piccoli doni personali a questa storia lunga più di cinquant’anni è un modo per non restarne soffocati. […] Il mio vissuto e le mie storie personali sono la chiave per non perdere il mio punto di vista. In questa collezione c’è un oggetto feticcio, è la volpe, un oggetto di legno che viene dalla Sicilia, lo ho da quando sono piccolo, credo che appartenesse a mio nonno. Un giocattolo, un oggetto decorativo che ho trasformato in bottoni, in guarnizioni per borse – e ci sta perché Etro è sempre stato legato al mondo botanico, agli animali»

Un compromesso tra storie che si realizza anche quando De Vincenzo si confronta con il signor Etro scoprendo che «abbiamo avuto un percorso simile anche se geograficamente distantissimi». Dopo tutto, Etro nasce come fabbrica tessile e De Vincenzo è un «uomo di fabbrica» che vuole vedere coi suoi occhi e toccare con le sue mani. «Nonostante i tempi serrati non ho mai perso la mia abitudine di andare a visitare le fabbriche. […] Tutte le mie collezioni degli ultimi 10 anni sono nate nei laboratori tessili. Io mi chiudevo lì e iniziavo a tagliare e cucire. Tutto è sempre nato in movimento». È chiaro che, di fronte a questa inclinazione verso il prodotto, il designer e direttore creativo prenda una posizione nel recente dibattito che riguarda lo status di quei direttori creativi privi di specifiche competenze sartoriali: «Io sono un designer innanzitutto. Prima di essere direttore creativo sono designer e ho lavorato molto per il mio posto. A me piace stare tanto sulle cose e non credo che i due ruoli possano essere slegati - anche se il mondo dimostra che non è così. Ci sono direttori creativi che puntano sull’immaginario e non hanno questa dedizione. Io credo nella squadra, non c’è mai un lavoro che appartiene a qualcuno in particolare. Penso a volte che sia un direttore creativo senza un bravo designer che un designer senza una forte visione non funzionino. Per me servono entrambe le parti». E come affronta lui una collezione? «Io parto dai materiali da anni, da anni mi affido solo a pattern e tessuti. È un patchwork piatto, che non è associato a nessun volume e nessuna silhouette, un’armonizzazione di colori, di texture e di disegni spesso anche ambiziosa, perché unire nella stessa collezione fiori, quadri e righe non è sempre facilissimo. Ma è una cosa che mi stimola da sempre. Poi immagino i capi, ma io parto sempre dai materiali».

Altro lato della questione, o meglio altro livello della questione, è la contrapposizione di narrativa e prodotti: non è un mistero che il grande dibattito che segna la stagione FW23 è quello in cui si scontrano le scuole di pensiero di chi vuole una moda portabile e commerciale e di chi invece, in nome dell’arte, desidera il sogno e l’espressività che valicano i confini dell’abbigliamento in senso stretto. La posizione di De Vincenzo, ancora una volta, è quella del senso critico e del ragionevole compromesso: «Oggi tutto va spiegato. Lo storytelling ci ossessiona – non puoi fare niente perché ti piace, devi sempre dare una spiegazione. Questa cosa è diventata eccessiva, spesso poi ha svuotati di contenuti il prodotto – che è un paradosso, considerando come ci sono storie costruite solo su quello e poi ti giri e il prodotto non c’è. Allo stesso tempo capisco che un prodotto fine a sé stesso, oggi, […] non ha molto senso. Mi colloco a metà, dalla parte di chi pensa che il mondo non abbia bisogno di questa quantità di vestiti, ma anche che, allo stesso tempo, se racconti perché fai qualcosa e chiedi a te stesso perché la stai facendo e fai il tuo lavoro con onestà intellettuale, sei salvo». È chiaro che secondo questo punto di vista sia anatomizzare l’arte alla fredda luce del profitto che glorificarla romanticamente sono posizioni estreme e, in ultima analisi, incocludenti a cui De Vincenzo risponde con una terza via, quella della profondità: «Raccontarsi è sempre complesso perché nessuno vuole prendersi il tempo per capire cosa stai dicendo, in fondo serve un titolo, servono tre parole semplici. Mi dicono sempre “Semplifica, semplifica, dacci tre parole, tre aggettivi”. Ma quali sono? Come faccio? Eppure c’è questa tendenza. Se ci fosse tempo mi piacerebbe raccontare tanto le cose, non credo al racconto breve e al semplice titolo».

E se dunque questo «collezionista onnivoro» afferma che «il passato è una chiave di lettura, una fonte di ispirazione ma che mi lascia piena libertà di interpretazione» senza mai ridursi a sterile copia, e se davvero nella sua passione archivistica e «quasi archeologica» con cui riunisce insieme storia personale e archivio storico di cinquant’anni di moda italiana, dato che gli archivi di Etro includono anche tessuti prodotti per altri brand, essendo il marchio nato come manifattura tessile pura, dove si andrà per il futuro? Lo scrittore George R.R. Martin divise anni fa i creativi in architetti e giardinieri, i primi pianificano e prevedono, i secondi coltivano e attendono. De Vincenzo è un giardiniere: «un giardiniere. Non sto davvero pianificando niente. È l’unico approccio che ho, in generale. Pianificare mi viene impossibile. Mi sono riconciliato con questa cosa, ma andare a braccio per me è l’unica strategia».


Credits:

 

Photographer: Marcello Junior Dino

Photographer Assistant: Davide Carlini

Interview: Lorenzo Salamone