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A meno di tre settimane dal suo debutto alla Settimana della Moda milanese ho incontrato Rhuigi Villaseñor a Milano, in zona Bocconi durante un mercoledì qualsiasi di settembre, quando il caldo estivo continua il suo inesorabile operato senza lasciar posto al cambio di stagione. «Ho l’ansia e la tachicardia» mi dice tra una foto e l’altra, anche se dalla tranquillità con cui posa davanti l’obiettivo l’ansia non traspare minimamente. Outfit completamene rosso e flip-flop ai piedi, Rhuigi è chiamato a cambiare il volto di Bally, il brand svizzero con oltre 170 anni di storia che pochi mesi fa - a gennaio del 2022 - l’ha scelto come direttore creativo per dare il via a quel processo che lo stesso Villaseñor ha voluto ribattezzare “ecdysis”, una muta nella sua definizione scientifica. «La scorsa estate stavamo discutendo di una collaborazione tra me e Bally» mi dice quando gli chiedo della genesi del suo nuovo incarico. «Io e il CEO Nicolas Girotto abbiamo subito trovato una connessione attraverso la storia del brand e a quel punto era chiaro che sarebbe diventata una relazione lunga.» Nato a Manila e trasferitosi a Los Angeles a nove anni, ha fondato il successo di Rhude, il brand di cui è founder e CEO, su una fitta rete di appassionati, da Jay-Z a Kendrick Lamar, diventando a meno di trent’anni uno degli enfant prodige della moda americana. Un background che rende la sua nuova sfida, cambiare la pelle a un brand di lusso profondamente europeo, ancora più eccitante e che, come raccontato dallo stesso Rhuigi, sembrava un segno del destino scritto nel suo albero genealogico. «La mia passione per gli orologi è stata uno dei modi in cui mi hanno convinto» mi dice scherzando. «Ma in qualche modo il brand ha sempre fatto parte di me, è qualcosa che faceva parte del guardaroba della mia famiglia in maniera inconsapevole, da mio padre a mio nonno. In qualche modo era destino.» Se di destino si tratta, e sono convinto che lo sia, la sua nuova vita tra Lugano e Los Angeles richiederà a Rhuigi un ulteriore sforzo, dividendosi non solo tra Bally e Rhude, ma anche con i suoi altri impegni lavorativi, come quello con Zara, con cui il designer ha collaborato solo pochi mesi fa. «Se non altro è la prova che posso dividere il mio cervello in modo che lavori per tre aziende diverse» mi dice commentando i suoi molteplici incarichi. «Sono tre conversazioni che porto avanti con il mio pubblico sulla mia visione dello sportwear, dello streetwear e del luxury. Una è la mia opinione, l’altra è una conversazione e l’altra è uno statement.» Lo statement, ovviamente, è Bally.

Quello di Rhuigi è solo l’ultimo esempio di un corteggiamento che il luxury ha iniziato da tempo verso lo streetwear, in un processo che ha visto il suo inizio con la nomina di Virgil Abloh a direttore artistico del menswear Louis Vuitton per arrivare a quella di Matthew M. Williams da Givenchy. «C’è un senso di responsabilità nel rappresentare la nostra community - quella streetwear - e avere la possibilità di portarla su un livello così importante. Mi chiedo come poter usare questa possibilità per portare i desideri e i bisogni di una community nel mercato del lusso contemporaneo. La ricetta vincente è quella di rimanere un collettivo, senza dividersi, per riuscire a portare un vero cambiamento.» A catturare la mia attenzione però è stata la scelta di Rhuigi di posare in un outfit totalmente rosso, una scelta cromatica quanto mai azzeccata vista l’asetticità dello spazio industriale che ci ha accolto, ma che si discosta in parte con quanto mostrato dal designer nel corso della sua carriera, dove è stato il giallo ad essere onnipresente, dal branding ai packaging dei suoi prodotti. Ma dietro quel look, ovviamente, c’è un significato. «Odio il rosso. Ma parte del mio esercizio quotidiano è provare a comprendere le cose che non mi piacciono per farle mie» mi spiega quando gli chiedo il motivo dietro la scelta. «Ci sono tante cose che non mi piacciono ma che cerco di esplorare nel mio lavoro, perché trovo che il senso di scomodità e di cambiamento sia importante per noi. Dobbiamo essere creativi, ma se rimaniamo attaccati alle cose che ci piacciono rischiamo di diventare pigri.»

Un percorso di crescita quindi, quello che come mi dice Rhuigi sembra essere arrivato nel momento perfetto - «sentivo il momento di cambiare il mio sistema e Bally era l’occasione perfetta per farlo» - e che passa anche dalla capacità di guardare questo nuovo lavoro con occhi diversi. «È importante per me vedere questo percorso con gli occhi di me stesso a dieci anni, con la curiosità giusta per poter assorbire le idee di tutti quelli che lavorano con me. Quando sono arrivato negli Stati Uniti da ragazzino i loghi e il branding mi hanno subito attratto. La chiave è trovare un collegamento tra quell’interesse per l’America e quello per il luxury europeo.» Ma quello intrapreso da Rhuigi Villaseñor è senza dubbio un percorso che richiederà tempo, un processo di decodifica e ricodifica mi dice, in cui Bally cambierà pelle, qualcosa di caro al brand svizzero, per muoversi sempre più rapidamente verso la nuova direzione creativa immaginata dalla sua nuova guida.


Con la sua prima collezione, Rhuigi Villaseñor ha gettato le basi per il futuro di Bally. Un percorso che da un lato vuole rispettare la legacy del brand, mentre dall’altro vuole portarlo verso nuove direzioni e idee. Opulenza e sensualità sono le due parole usate da Villaseñor per descrivere la collezione, ideata pensando a cosa indosserebbe per una serata fuori casa. A sorprendere davvero però è stata la capacità di Rhuigi di mostrare un altro lato della sua estetica, allontanandosi dai lidi dello streetwear per creare un nuovo immaginario preppy chic misurato sulla storia di Bally.