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LeBron James, ne è valsa l'attesa

New Sport Side

LeBron James, ne è valsa l'attesa  New Sport Side

L’Oxford Dictionary definisce un “game changer” come: «un evento, idea, una procedura che provoca uno spostamento significativo nel modo di fare o pensare a qualcosa». Se c’è una cosa che oggettivamente si può imputare a LeBron James, è di essere stato un game changer – e in più d’un modo – per l’NBA. Al di là di ogni considerazione di merito sul suo gioco, sul suo dominio, LeBron James ha introdotto sul parquet il prototipo del giocatore che può giocare in tutte le posizioni, l’estremizzazione dell’all american, il cestistica del futuro. Ma non solo.
LeBron James ha rappresentato il secondo meteorite mediatico ad aver colpito il pianeta Terra dopo Michael Jordan.

Ancor prima di arrivare in NBA LBJ era sulla copertina di Sports Illustrated, aveva un contratto milionario con la Nike e aveva deciso di farsi chiamare Choosen One, il Prescelto. Nome che da lì a poco avrebbe lasciato spazio a King James. Il Re allora ha preso di peso la Nike e l’NBA e le ha trasportate nel terzo millennio, nell’era delle app, delle pubblicità-film e dei social network, delle sneaker super-leggere e dei videogiochi iper-realistici. E poi c’è Cleveland, la città più sfigata d’America, che non ha mai vinto un titolo in nessuno dei principali sport americani. Northeast dell’Ohio, tra cemento e recessione economica. Ma è cambiato tutto domenica, quando il Figliol Prodigo ha mantenuto la sua promessa, mettendo definitivamente sulla mappa Believeland e consegnandosi alla storia.

Tornando a James. Se si lasciano per un attimo da parte gli incredibili risultati sportivi, si possono tracciare i contorni di tutto ciò che James ha significato per il mondo NBA e dello sportswear dal punto di vista mediatico e commerciale, così come suoi piccoli tic, particolari fissazioni e riti scaramantici che appartengono solo a lui.


Rivoluzione Nike

Il “rimpiazzo” di Michael arriva da Akron, sa perfettamente cosa fare del suo corpo, del suo talento e ancor di più della sua immagine. La Nike firma LeBron con un contratto a vita, legandosi alle sue fortune e al suo incredibile controllo su vita privata e opinione pubblica. Raramente Bron sbaglia un colpo, gestendo anche le situazioni più intricate (quando Kanye passerà all’attacco della Jordan, si limiterà ad un «Nike is family»). Per tantissimi nati nei 2000, le Nike LeBron hanno rappresentato il non plus ultra applicato alle sneaker cestistiche, quello che le Jordan erano nei ’90 con l’esplosione della cultura pop. 13 edizioni della sua signature, più svariate variazioni sui colori e sui temi.

 

Fascetta si/no

L’immagine stilizzata predominante di LeBron James è quella che lo vede con fascetta e “compressor sleeve” (la “manica”, per intenderci). Quest’ultima, introdotta già da Allen Iverson e indossata anche da Kobe Bryant, è costantemente – e in maniera incrementale – tra gli accessori più venduti negli store NBA. Stessa sorte, anzi ben più radicata nella tradizione, toccata alla fascetta per il sudore. Proprio la fascetta è stata al centro di un piccolo intrigo che ha visto coinvolto il volto della Lega, quello di Bron, quando ha smesso di indossarla. In sintesi: la fascetta gli stava facendo perdere i capelli? Per alcuni sì, per Lebron stesso invece il disuso era propedeutico al rafforzamento dello spirito di squadra, «nei Cavs nessuno indossa più la fascetta, così ho pensato di toglierla anch’io, per non apparire diverso dagli altri in nessun modo».

 

Zero-Dark Thirty

LeBron James è un asso assoluto nell’auto-costruirsi l’epica della sua figura. Dai suoi soprannomi – che si è dato da solo – ad alcuni degli atteggiamenti in campo (il chalk toss che era solito fare nella sua prima vita a Cleveland) e fuori, “The Decision” e “I’m Coming Back Home” su tutto, quello che LeBron fa è minuziosamente calcolato al millimetro. Forse le Lacrime di domenica sono state il primo segnale di candida umanità di un uomo che ha dovuto portarsi sulle spalle uno stato intero. Auto pressione, come quella che si mette prima di ogni Playoff (e LeBron è SEMPRE andato ai Playoff) escludendosi dai social in quella che lui chiama modalità Zero Dark Thirty, dal film ispirato alla missione che portò all’uccisione di Osama Bin Laden.

 

Hulk move

Nessuno era mai tornato da un 1-3 durante le Finals. Nessuno aveva mai vinto tre gare di fila, in un’impresa che passerà alla storia dello sport più che del basket. Un’impresa che sa di orgoglio, un orgoglio smisurato, messo in campo da LeBron per la sua città, ma non solo… Durante le ultime partite i Cavs hanno indossato la terza maglia, l’alternate nera, che ha la caratteristica di far parte di quel lotto di magliette con le maniche che tante critiche s’erano portate addosso. Anche lo stesso LeBron pareva contrario, si diceva che le maniche gli impedissero i movimenti e la scenetta alla Hulk delle maniche strappate lo dimostrava. Eppure proprio Lebron ha richiesto che le ultime partite fossero giocate con quelle maglie. Perché? Perché quelle maglie simboleggiano l’orgoglio, l’orgoglio di una città che ha saputo non arrendersi mai. Ha avuto ragione LeBron e chissà che questo possa fermare il processo d’odio verso le magliette a mezza manica, ora che la Nike sta per riprendersi l’NBA.

 

All Hail The King

Cleveland in queste settimane era tempestate di banner, che recitavano tutti la stessa cosa: Believe. Believe in Love, in JR Smith, in Irving e, ovviamente, Believe in LeBron James. Il mattino seguente alla vittoria dei Cavs, la Nike ha mandato in onda uno spot dove tutta la città tratteneva il fiato, per poi esplodere alla stoppata di Bron, al suo tiro da tre, al suo rimbalzo. Emozione.
È stato solo l’ultimo di una serie di spot che hanno visto sempre protagonista Bron, il migliore davanti alla telecamera, per distacco, in questa lega. L’abbiamo visto portarsi appresso un’intera città sulle spalle, Together, nello spot Nike per il suo ritorno, lavorare duro in palestra per la Beats, per non far altro che permettere alla sua città di risplendere. E chissà quanti altri. L’epica di Lebron passa soprattutto dallo schermo, quello schermo che riesce a rompere con il sorriso sincero di uno «che non dovrebbe neanche essere qui».
Eppure c’è, tutti testimoni.