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L’importanza di essere se stessi: Allen Iverson #3

Ritratto dell'uomo che ha cambiato la NBA per sempre

L’importanza di essere se stessi: Allen Iverson #3 Ritratto dell'uomo che ha cambiato la NBA per sempre

Quando ero piccolo, Steph Curry e LeBron James non erano ancora diventati i giocatori che sono ora, con gli amici si giocava alla PlayStation 1, usando joystick con fili imbarazzanti, e le canottiere della NBA erano in larga parte prodotte e sponsorizzate da Champion. Si può affermare con una buona dose di certezza che, tra le magliette più belle riprodotte proprio dal marchio americano, si annovera quella di Allen Iverson che, con i Philadelphia 76ers, ha riscritto e reinterpretato i concetti base della pallacanestro.

La mia prima canotta NBA è stata proprio la sua, bianca: nelle rare occasioni in cui all’epoca venivano trasmessi i match americani in Italia, mi ricordo che “The Answer” – nickname di AI – riusciva sistematicamente a lasciarti a bocca aperta grazie alle sue giocate da playground. Iverson sprigionava una energia ed un talento che raramente si erano visti prima. E dire che la pallacanestro era considerata dal ragazzo originario della Virginia uno sport “per femminucce”

Questo terzo episodio di #Pictures non poteva che essere dedicato ad uno degli atleti più eclettici e controversi della storia dello sport, che con il suo numero 3 ha fatto emozionare, gioire, piangere e arrabbiare milioni di tifosi e appassionati di tutto il mondo. Lo racconteremo attraverso tre aggettivi che hanno contraddistinto la personalità di AI. Perché non c’è errore più grande che definire Allen Iverson solo un giocatore di basket: Iverson è stato molto più di questo, grazie ad un carattere non semplice ed una vita vissuta sempre al limite, è riuscito a rappresentare ed incarnare i valori delle sue origini restando sempre fedele alla sua indole, nel bene e nel male. 

 

#1: Talentuoso

Nasce il 7 giugno 1975 ad Hampton in Virginia: è la madre Ann a crescerlo fin da subito, visto che il padre se ne andò immediatamente dopo la sua nascita. Allen erediterà il cognome Iverson proprio dalla madre, a cui è sempre stato legatissimo. 

Durante gli inizi alla Bethel High School, Iverson fa parte sia della squadra di football che di basket: mentre in quest’ultima gioca come guardia, nella prima ricopre il ruolo di quarterback trascinando, in entrambi i casi, le squadre della propria scuola alle finali statali per due anni consecutivi. Fin da subito ci si accorse che Iverson era un talento nato per gli sport, anche se risultò necessario, viste le difficoltà economiche della famiglia, decidere quale strada seguire. Mamma Ann e il compagno Michael Freeman spinsero Allen verso la pallacanestro, consci del fatto che era proprio con la palla arancione che dava il meglio di se stesso. Dopo un iniziale tentennamento dovuto alla apparente minor “mascolinità” del basket rispetto al football, Iverson si convinse e decise che quella era la strada giusta da percorrere. 

A sedici anni iniziarono i problemi con la giustizia: Allen viene coinvolto in una rissa in un bowling per la quale viene condannato, molto probabilmente ingiustamente, a scontare dieci anni di reclusione. Sconterà solo quattro mesi in un centro di correzione, ricevendo nel 1995 la grazia definitiva da parte del giudice per insufficienza di prove. 

Nel frattempo, le sue doti furono notate da diversi osservatori che non ci pensarono due volte a recapitare la loro offerta al talento di Hampton: la spunterà Georgetown che, grazie all’allenatore John Thompson, riuscì ad andare oltre i pregiudizi che stavano imperversando sulle bocche dei maligni, che vedevano in Allen Iverson un delinquente fatto e finito. Proprio i pregiudizi delle persone sono stati il fardello che The Answer si è dovuto portare dietro per tutta la sua carriera: nonostante ciò, il numero 3 è sempre riuscito ad andare oltre, ad essere se stesso, lasciandosi scivolare addosso il peso delle critiche che i suoi haters gli hanno sempre puntualmente recapitato nei momenti di crisi. 

A Georgetown, prestigiosa scuola da cui passarono tra gli altri Ewing, Mutombo e Alonzo Mourning, Iverson restò solamente due anni, dove mostrò una volta per tutte le sue doti. Al primo anno, tanto per dire, vince il Big East Rookie of the Year e Difensore dell'anno; non male per uno che voleva giocare a football. Lasciò gli Hoyas con una media di 22.9 punti a partita per rendersi eleggibile, in accordo con coach Thompson, per il draft NBA del 1996. Quella di Iverson, oltre ad essere stata una scelta sportiva, fu anche e soprattutto una scelta economica, vista la situazione che stava vivendo la famiglia Iverson-Freeman: atterrare in NBA avrebbe certamente consentito ad Allen di garantire un livello di vita nettamente superiore a tutta la famiglia. 

 

#2: Carismatico 

Come la storia ci ha insegnato, il draft del 1996 fu uno tra i più competitivi della storia. Iverson venne selezionato da Philadelphia come prima scelta assoluta, lasciandosi alle spalle gente come Kobe Bryant, Ray Allen, suo avversario al college, Steve Nash e Predrag Stojakovic

Il primo anno a Philly fu abbastanza deludente per la squadra, ma non per Iverson: il ragazzo originario della Virginia giocò la sua prima stagione NBA da playmaker, soprattutto perché il posto di guardia era occupato da un certo Jerry Stackhouse. A fine stagione, Iverson venne eletto Rookie of the Year, collezionando 23.5 punti, 7.5 assist e 4.1 rimbalzi di media. 

Il suo modo di interpretare il basket, nonostante nella lega giocasse gente come Jordan e Barkley, fu rivoluzionario: proprio grazie alle abilità ottenute giocando a football, Iverson era in grado di compiere trick e crossover da mandare al bar persino sua maestà Michael Jordan. Tuttavia, il suo trash talking e la sua sfrontatezza sul rettangolo di gioco gli crearono non pochi problemi, specialmente agli occhi dei giocatori più anziani. Con il passare degli anni e con l’aiuto di Coach Larry Brown, Iverson riuscì a gestire e migliorare la sua enorme personalità, orientando gli sforzi e le fatiche al raggiungimento del successo piuttosto che dei litigi. 

Tra il 1998 e il 2000 i Philadelphia 76ers raggiunsero la post-season, venendo eliminati in entrambi i casi dagli Indiana Pacers. Con Brown in panchina la squadra iniziò ad avere una forma e un senso, nonostante Iverson alternasse prestazioni da quaranta punti a comportamenti adolescenziali e ribelli. Il passato travagliato veniva usato da Allen come scusante per venire meno al rispetto delle regole di spogliatoio, conscio della sua importanza per la squadra e della sua insostituibilità. Tutto ciò indusse lo stesso Brown e i 76ers a valutare una trade con un’altra franchigia; quest’ultima non si concluse e la stagione 2000/2001 iniziò con un Iverson totalmente rigenerato. Quell’anno, The Answer vince l’MVP dell’All Star Game e della Regular Season trascinando i 76ers alla post-season: battono prima Indiana, poi Toronto, ed infine i Bucks di Ray Allen. Ad aspettarli in finale c’erano i Lakers di Kobe e Shaq: in Gara 1, Iverson vince sostanzialmente da solo, segnando 48 punti e lasciando tutto il mondo a bocca aperta davanti allo step-back che mandò al tappeto Tyronn Lue. Purtroppo per Allen e per i 76ers, l’anello se lo portarono a casa i gialloviola di LA, lasciando Iverson con un grande vuoto dentro. 

 

#3: Ribelle 

Probabilmente per The Answer non è mai stato semplice essere Allen Iverson, così come non è mai stato semplice essere suoi fan: le sue immense doti sportive si sono spesso scontrate con gli infortuni e le azioni, spesso al limite, compiute fuori dal campo. Giocatori come Iverson o li ami o li odi: in entrambi i casi è necessario ammettere che se un ragazzo altro 1.83, nato senza un padre e cresciuto senza soldi è arrivato a giocarsi il titolo di campione NBA, qualcosa da insegnarci ce l’ha. 

Iverson è stato uno dei primi, se non il primo, a scendere sul parquet mostrando i tatuaggi senza vergogna; è stato definito delinquente, malvagio, egoista, spesso perché rappresentava una nuova ondata generazionale e innovativa. Il suo carattere esplosivo lo ha portato più volte a trovarsi contro una buona fetta dell’opinione pubblica americana: ha avuto problemi con la giustizia, con il gioco d’azzardo, ma soprattutto con la moglie e una delle figlie, che soffriva di una malattia rara. Nel 2010 divorziò dalla moglie Tawanna, sua amata fin da quando aveva diciassette anni, la quale chiese l’affidamento esclusivo dei cinque figli.

Allen Iverson non ha mai vinto né l’anello NBA, né la medaglia d’oro olimpica: e allora perché viene ricordato come un vincente? Perché il suo modo di essere e di interpretare la pallacanestro non è mai cambiato negli anni, segnando un decennio e mostrando a tutti come si può essere se stessi senza dover necessariamente omologarsi al sistema. Quel sistema che, in fin dei conti, gli ha riconosciuto, prima con i 76ers e il ritiro della maglia numero 3, e poi con l’inserimento nel 2016 del suo nome nella Hall of Fame NBA, la sua unicità e la sua capacità di rivoluzionare il gioco come pochi altri hanno fatto. 

“Quando ero giovane, tutti ridevano di me se dicevo di voler diventare un giocatore di pallacanestro professionista; adesso tocca a me ridere.”