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Tim Duncan, storia di un normcore in NBA

Come essere normali in una lega di personaggi stravaganti

Tim Duncan, storia di un normcore in NBA Come essere normali in una lega di personaggi stravaganti

Christiansted è la più grande città di Saint Croix, a sua volta la più grande delle Isole Vergini americane. Questo è quello che ci dice Wikipedia, insieme al fatto che le Isole sono da sempre una delle principali attrazioni turistiche dell’arcipelago, e che l’attività ha oramai trasformato anche usi e costumi del luogo, snaturandone l’essenza caraibica originale. È la globalizzazione, bello, direbbero da altre parti.
Quello che non è cambiato però è il tessuto con cui sono realizzati gli abiti tradizionali delle Isole Vergini, tessuto che spesso viene cucito addosso alle ballerine caraibiche. Con lo stesso si realizzano le camicie da uomo. Si tratta del madras, ereditato dalla tradizione indiana, e che spesso si presenta con una fantasia simile al tartan.

Timothy Theodore Duncan viene proprio da Christiansted, dove, prima di diventare uno dei giocatori più vincenti di sempre in NBA, nuotava tra le correnti dei mari caraibici. La storia di Tim Duncan in NBA, da sempre alla corte dei San Antonio Spurs di Coach Popovich, è stra-conosciuta: 5 titoli NBA, 3 da MVP, Rookie dell’anno, 15 volte All Star e una sfilza di premi individuali a cui è difficile star dietro. Tim Duncan, che si è guadagnato il nickname di Big Fundamental, che ha annientato generazioni e generazioni di talenti con la forza della sua calma, con un attitudine forse poco caraibica ma molto vincente.

Nella sua ventennale esperienza nel massimo campionato di basket americano, Duncan ha attraversato (come detto, indenne) diversi cicloni mediatici e sportivi, da Shaquille O’Neal a LeBron James, passando per Kobe Bryant e Allen Iverson. E nella lega della spettacolarizzazione, dei social media e delle pubblicità questo significa anche passare attraverso mode destinate a non restare. Tim Duncan ha visto l’imposizione del dress code, ha visto i giocatori vestirsi da gangstar, poi da PIMP, poi crescere fino a diventare uomini d’affari e degenerare nell’hipsterismo di Russell Westbrook e compagnia. Ma Tim Duncan è rimasto sempre lo stesso.

Da un recente tweet di Joel Embiid (uno bravissimo a stare sui social) negli USA si è cercato di riscoprire una grande verità: e se Tim Duncan fosse stata la più grande fashion icon di questi anni? Se il normcore che oggi tanto viene invocato lui l’avesse praticato da sempre con grande eleganze e facilità?

Nel 2014, in piena finale NBA tra San Antonio e Miami Heat, Busted Coverage descriveva Duncan come una icona anti-Fashion, citando le frasi di Wade – sempre uno dei primi nelle classifiche dei giocatori più trendy – dove il 3 di Miami affermava che «a Tim Duncan semplicemente non importa, può anche andarsene in giro indossando una maglia 7 taglie più grande, non gli importa».

Sembra l’intuizione giusta, anche a giudicare dagli outfit scelti da Tim per la consegna di due dei premi individuali che ha vinto. Nel 1998, eletto ovviamente Rookie of the Year, si presenta alla premiazione con una t-shirt basic, da colore dubbio, e un paio di pantaloni di tuta. Non sorride (ma questo sarà un must di tutta la carriera) e sembra essere stato portato lì decisamente controvoglia. Anche alla cerimonia di consegna del premio da MVP, solo 4 anni dopo, Duncan non ha posto particolare attenzione al suo look, shirt basic rossa – troppo grande per chiunque – e pinocchietto di jeans. Questa volta accompagnato da un sorriso e da un paio di Birkenstock.

Non ha mai sopportato le regole, Timmy. Alla celebre decisione di David Stern di introdurre il Dress Code, tuonò «credo siano un mucchio di stronzate. Capisco cosa cercano di fare vietando cappelli, acconciature strane, maglie vintage e tutte quelle cose. Ma non capisco perché debbano portarlo fino a questo livello», per poi, con puro fare Duncaniano, concludere «non mi piace la direzione in cui stanno andando, ma chi sono io?».

Con la stesa semplicità e sprezzo per le regole istituzionali, Tim Duncan ha pensato bene di presentarsi alla Casa Bianca senza bisogno di un papillon o una cravatta. Simply TD.

Ma il più grande successo stilistico di Tim Duncan, quello che ha portato GQ e The Ringer a tributargli articoli e riflessioni è certamente l’introduzione delle camicie e degli abiti over-over-size negli anni ’10. Tim Duncan ha vestito per 20 anni di NBA sempre allo stesso modo, con dei camicioni enormi – ed è incredibile che un ragazzone di oltre 2 metri e 10 trovi sempre camice tripla XL da indossare – che gli hanno naturalmente consegnato lo scettro di Re del normcore NBA. Alcuni degli esempi più iconici: l’incredibile camicia con cui si è presentato all’All Star Game di Houston nel 2006 (Tim odia gli All Star Game, ovviamente), o ancora quella dall’inspiegabilmente grande colletto delle finali NBA del 2003. Ma la lista è lunga è soprattutto in costante aggiornamento.

O almeno, lo era fino a qualche settimana fa. Tim Duncan ha deciso di ritirarsi; lo ha fatto senza clamori, senza tour, andandosene piano e senza far rumore. Nessuna maglietta celebrativa, nessuna dichiarazione al microfono. Quando tutto il mondo lo ha saputo, magari stava indossando una delle sue camicie, con un pinocchietto troppo fuori moda e un grosso sorriso sul volto. Magari lo rivedremo su qualche panchina, con quegli abiti XXXL, a rendere cool l’uncoolness più totale.
O magari se ne starà nel mare dei Caraibi, a nuotare come faceva da ragazzino, concedendosi poi ristoro sulla spiaggia, indossando una camicia in madras (con un pattern tradizionale caraibico) simili a quelle che era solito indossare quando dominava l’NBA.